il Venerdì _ 23

Quello che mi son ripromessa di fare ogni lunedì è buttarmi alle spalle gli acciacchi e ciò che è stato, ripartendo con nuovo slancio. Ché ogni settimana è storia a sé, un po’ come i giorni e le ore. Allora via, con fiducia, verso quel che sarà, ché l’ottimismo si dice sia il profumo della vita.

Già… solo che poi mi domando, che diavolo di slancio volete che mi dia se il primo paziente con cui ho avuto a che fare questa settimana, manco ho fatto in tempo a dirgli buongiorno, che se n’è venuto fuori con un altezzoso: che c’è dimorto da aspettare stamani?!

Ed io, a quelle parole lì, ho appallottolato i buoni propositi, crash!, e me li son buttati alle spalle, ma con leggerezza, eh, ché anche se in mente avevan già preso a frullarmi pensieri su pensieri, mi son detta, meglio lasciar stare e rimanere zitta, va, ché se inizio a farmi il fegato amaro di lunedì si parte bene di nulla.

Anche se, a dirla tutta, sebbene lunedì sia stata zitta, mi sa che il fegato con questo lavoro me lo sto giocando lo stesso, ché tanto, dopo quel paziente lì n’è venuto uno simile, poi un altro ancora… e come se non bastasse, oh, ci s’è messo anche qualche collega a rendere ancor più interessante il tutto; una roba che se ci penso, caro il mio fegato, un due-tre Negroni di quelli pesi sarebbero andati giù parecchio meglio, credimi.

Ma voglio esser comprensiva, suvvia, ché non si dica che passo i venerdì a lamentarmi!
Allora la butto lì e mi domando, sarà forse questo caldo tremendo giunto d’improvviso a fiaccare menti e gambe, a dar noia un po’ a tutti? A renderci più irascibili, intransigenti, impazienti?

E chi lo sa…
Mio fratello dice che in questo periodo dovremmo bere in continuazione acqua, mantenerci idratati. Bisognerebbe insomma aver sempre con sé un bel paio di gobbe, proprio come i cammelli, in modo da non restar mai senza scorta, evitando così di disidratarsi e perdere le staffe. Solo che mica posso bene soltanto io, eh, ché per aver dei benefici, intendo benefici veri, mi sa che le gobbe dovremmo averle un po’ tutti. Quindi bevete gente, idratatevi! Altrimenti mi tocca buttar giù roba forte, altro che acqua… E poi chi glielo spiega a mio fratello?

Va detto, però, che in giro ci sono anche tante belle persone, che a loro modo son dei preziosi sorsi d’acqua fresca. Son quelle persone che con un sorriso, una parola gentile o una battuta, oh, son capaci di risollevarmi in un attimo.

Ce ne vorrebbero di più di sorsi così, leggeri e liberi, proprio come quello di birra fresca che butto giù a fine giornata, confusa tra centinaia di ragazze e ragazzi che non conosco, ma a cui comunque mi sento vicina, ché sorridon tutti, senza niente di cui lamentarsi né niente da chiedere, men che mai da pretendere. Ah, finalmente!

E mentre ci penso, alle delusioni, ai lamenti, alle arrabbiature… un po’ alla volta svanisce tutto. Ed è di nuovo il vuoto, dentro, un vuoto pieno di vita, di idee creative e anche di fiducia, si, che mi porta a pensare che a volte, be’, basta davvero poco per tornare a respirare. Un pomeriggio libero, ad esempio, meglio se immersa nel verde delle Cascine a Firenze, mentre il sole ci da l’ultimo bacio della giornata e la musica degli Smashing Pumpkins riempie l’aria, riportandomi, d’un tratto, ad un bel po’ di anni fa.

The Smashing Pumpkins _ Ava Adore

il Venerdì _ 22

Io, son sempre più convinta che le cose, in questa vita, non capitano a caso. Non capitano a caso per niente.

Così, quando lunedì mattina, tutto d’un tratto, i pc dello studio sono andati in tilt, mi son detta, dev’esserci senz’altro un motivo se la settimana non ha fatto neanche in tempo ad iniziare che già ci ha messi tutti fermi all’angolo. E quando dico un motivo, intendo qualcosa che vada oltre l’evidenza di un guasto alla rete o di una connessione che salta e rende un’isola ciascuno di noi.

Mentre la Mau e la Tere si davan da fare per risolvere ‘sta cosa, saltando di telefono in telefono in attesa che un tecnico o qualche altra mistica creatura giungesse ad illuminarle, io continuavo ad intrattenere i pazienti, distratta da una vocina che chissà perché aveva preso a ronzarmi in testa.

E più mi squotevo per mandarla via, più quella vocina ronzava, ronzava… MMM…non vi dico che fastidio, tanto che alla fine, oh, non ho potuto fare a meno di ascoltarla, presa per sfinimento. E menomale, dico io, perché grazie a quel ronzio fisso ed insistente ho finalmente capito che quel tilt, non era affatto un caso, ma un freno bello e buono, imposto a tutti noi dalla vita, che ultimamente ci vede tutti troppo di corsa, sfiancati, sempre connessi eppure così distanti.

Allora mi son sentita così grata per quel tilt, ché all’inizio pareva una sciagura, mentre alla fine, be’, s’è rivelato prezioso, per riprender fiato, guardarci negli occhi e far qualche risata insieme. Tanto la connessione è un po’ come certi amori, che mica finiscono, fanno dei giri immensi ma poi ritornano. Non si sa bene quando, ma prima o poi tornato… pare.

E poi, insomma, ritorno o no, ci son messaggi che non possiamo far finta di non sentire, ché se non ci si arriva da soli a capir certe cose, ci pensa la vita a darci un aiutino. E poco importa se i suoi modi non son sempre raffinati. Del resto mica son tutti come la signora Carla, ottant’anni, sempre elegante, distinta, che l’altro giorno mentre ci salutava, ha chiesto a me e la Mau dove avremmo trascorso le ferie. Noi siam rimaste un po’ interdette, ché ancora, prese come siamo da mille cose, non ci abbiam mica pensato, alle ferie. Allora lei, c’ha guardato un po’ severa, senza perdere però neanche un briciolo della sua eleganza e c’ha detto: Ma come? Dovete far le valigie e andar via, ché nella vita, care mie, bisogna prendere tutto quel che viene, giorno dopo giorno, ché domani chissà dove saremo.

E io, più ci penso, più mi convinco che anche quelle parole siano state un po’ come il tilt di lunedì: un segno. Ché nella vita, appunto, niente viene a caso, figuriamoci le parole. Allora mi son ripromessa di farne tesoro, tornando magari a mettermi lo zaino in spalla presto. Intanto però mi godo un buon gin tonic, ché anche se la giornata è stata lunga, a tratti interminabile, senza che me ne accorgessi, be’, il Venerdì è arrivato anche oggi.

il Venerdì _ 21

Ci son settimane in cui, più che d’essere a lavoro, ho come l’impressione d’esser finita in uno scherzo. Ché te ne capita una dietro l’altra, senza alcun modo di riprender fiato, e tra le decine di voci che ti frullano in testa ce n’è una, lontana ma insistente, che fa da sottofondo alle altre. Tutto questo non può essere vero, ripete, dev’essere di sicuro uno scherzo.

Ecco, la settimana appena conclusa è stata esattamente questo: uno scherzo. Uno di quegli scherzi che però a me non piaccion mica poi tanto, ché mentre tutto va in scena, tu sei lì a domandarti se chi l’ha organizzato, quello scherzo lì, avesse davvero intenzione di farti ridere o cosa.

A tratti, infatti, in questi giorni più che le risa ho dovuto trattenere il pianto. Ché tra lunedì e martedì mi son beccata di quelle risposte, che se solo ci ripenso, son convinta che sarei uscita più intera da un giro di schiaffi.

Be’, che negli ultimi tempi a farla da padrona fossero le voci grosse, quelle che si apron la via a forza di polemiche e prepotenze, l’avevo capito. Speravo soltanto che se ne stessero fuori, a distanza di sicurezza. Invece son giunte fin qua; e vuoi per evitare discussioni, vuoi per quell’assurda storia che il paziente ha sempre ragione e che lo devi coccolare anche se ha la pelle dura e graffiante d’un coccodrillo, capita a volte che simili voci riescano ad avere la meglio anche da noi.

Per fortuna però c’è chi non si arrende ed ostacola il dilagare di questo imbrutimento collettivo con un’arma ai più sconosciuta, ma senza dubbio infallibile: la gentilezza.
È il caso della signora Maria Luisa, che l’altro giorno, al telefono, dopo essere state un po’ di tempo a prender degli appuntamenti, m’ha detto: Grazie di tutto, le do un bacio in fronte.
Ed io, davanti a quelle sue parole, ho pensato, ma quanto sarà strana la vita, che un attimo di trattano a pesci in faccia e quello dopo, oh, c’è chi ti manda baci via telefono?

Forse, dopo tutto, il bello della vita è anche questo, che non smette mai di sorprenderti e anche se a volte ti sottrae ossigeno tenendoti la testa sott’acqua, un attimo dopo è lì che ti tende la mano per poter tornare in superficie.

Di modi, per risalire, per fortuna ce ne se sono molti. E anche se a tratti è un’impresa ardua, io ne cerco di nuovi ogni giorno, ché se c’è una cosa che lo stare a contatto con gli altri mi ha insegnato, è non perdere me stessa. Certe cose, quindi, non posso far altro che farmele scivolare addosso. Le vedo e le sento, certo, ma un attimo dopo non ci son più. Puff. Svanite.
Del resto l’estate è alle porte e se voglio iniziare a mantenermi leggera per la prova costume, da qualche parte dovrò pur iniziare. No?

E se poi capita che mi distraggo e qualcosa mi rimane impigliato addosso, per fortuna ci sono la Ele e la Elsa, che per quanto sian giovani, ieri m’han dato prova d’aver occhi ben vispi, che guardano attenti a ciò che accade intorno ma al contempo han voglia di ridere e di farlo di gusto, proprio come si fa a vent’anni.

Tanto, l’ennesima delusione o arrabbiatura arriverà comunque, assieme all’immancabile voce grossa; facciamo almeno in modo che al loro arrivo trovino animi leggeri e spalle forti su cui scivolare.

Per quel che mi riguarda dovremmo tutti imparare ad esser più simili a loro, qua dentro. Conservando a mani strette l’entusiasmo dei loro anni, ad esempio, o la fiducia in un futuro che se solo ci impegnamo non potrà che essere migliore.

il Venerdì _ 20

Da queste parti non c’è mai il verso di starsene un po’ da sola. Vuoi o non vuoi, infatti, al Poliambulatorio qualcuno con cui parlare lo trovi sempre: di persona, per telefono, persino tramite messaggio, ché da un po’ di tempo ci siam fatti tecnologici e sul nostro cellulare è arrivato pure WhatsApp!

Be’, che dire? Al di là del caos che mi frulla in testa e del bisogno di silenzio che ultimamente accompagna le mie serate, c’è di positivo che ogni giorno intesso un sacco di relazioni. Non solo con chi come me se ne sta qua dentro a giornate intere per lavoro, ma anche con gli altri.

Già, perché può sembrar strano ma a questo mondo esistono anche gli altri, quelli che le giornate le passano per lo più fuori, ma che da qui, di tanto in tanto son costretti a passarci: per un’emergenza, un’igiene o perché no, un controllo. E così, a forza di vederli e sentirli, va a finire che anche loro diventano parte di noi; persone che si affezionano alle nostre storie o che ci raccontano le loro.

Penso a Rossella e alle sue camminate, ai ritratti color pastello di Gianni e a Giancarlo, che ogni volta che lo vedo, penso, ma quando arriverà la prossima spiaggia lontana ed assolata su cui fantasticare insieme?

Mentre aspetto che ciò avvenga, penso che averle incontrate, queste persone, è stata proprio una fortuna, ché di questi tempi, di cielo grigio e tempo incerto, una scaldata al cuore è proprio quello che ci vuole. E anche se vien fuori dalla cornetta di un telefono, un sorriso sincero a tratti sa esser più di una carezza. Proprio come quella che ho ricevuto l’altro giorno dal signor Fabio, che prima di metter giù, m’ha detto: Via nini, e’ ci si vede domani. Ed io, più ripenso a quel nini più mi sento stretta in un abbraccio. Ché manco me la ricordavo l’ultima volta che qualcuno m’aveva chiamata così, nini.

Penso a tutto questo, alle carezze, ai sorrisi e alle idee scaturite da cose piccole, semplici, ma pur sempre capaci di dar colore a giornate, che se solo non avessi questi occhi qui, non farebbero altro che susseguirsi l’una identica all’altra.

Allora, d’un tratto, mi vengono in mente quelli che vedono tutto grigio e per qualche assurdo motivo, oh, voglion far vedere grigio anche me. Solo che a me, ‘sta storia, non piace mica poi tanto, ché se c’è una cosa che non sopporto è chi ruba: energie, idee propositive, colori. Dico io, con tutta la fatica che si fa per tenerseli stretti, i colori, ci manca solo che qualcuno venga a sottrarceli.

I giorni, certo, non son tutti uguali e anche a me di tanto in tanto capita d’esser sotto tono, di buttar fuori pensieri, pesantezze, d’usare senza volere chi mi sta intorno come un pungiball. Dopo tutto siamo umani, mi dico, ma ora che son qui a scrivere, penso, va bene l’essere umani, ma forse bisognerebbe provare a mettersi nei panni di chi ascolterà le nostre parole, per capire non solo ciò che esse sono in grado di dare, ma anche ciò che molto probabilmente porteranno via. Chissà, magari così, prima d’aprir bocca impareremmo tutti a contare. Uno, due, tre… e avanti, fino a… be’, ognuno conti fino a dove vuole, l’importante è iniziare a farlo, ché a pensarci bene, se di orecchie ne abbiam due, mentre la bocca è soltanto una, dico io, non sarà mica un caso.

Meno parlare più ascoltare.

il Venerdì _ 19

A volte ho come l’impressione di dimenticarmi la fortuna che ho a starmene qua dentro. O meglio, più che dimenticarmene, è come se questo pensiero finisse per acquattarsi in un angolo, sotto polvere di arrabbiature, briciole di stanchezza e qualche parola buttata là da qualcuno che solo a ripensarci, oh, mi cadono le braccia.

È che più passa il tempo più mi rendo conto di quanto sia tristemente facile dimenticarsi le cose importanti. Accantonarle chissà dove, in un angolo polveroso, ad esempio, o nell’armadio assieme agli scheletri. Ché in fondo, anche loro, avran pur bisogno di compagnia, no?

Solo che noi dovremmo esser più bravi e trovar altro per intrattenere quegli scheletri, senza dar loro i nostri bei pensieri. Per fare questo abbiam bisogno di menti capaci di resistere a tutto e a tutti, soprattutto alla consuetudine e alle dimenticanze. Menti resistenti, insomma, e cuori capaci di fare altrettanto.

Io non lo so mica di cosa son capaci la mia mente ed il mio cuore. Insieme, in questi anni, ne han combinate parecchie, dentro e fuori di qua. E quando penso alle fatiche che ultimamente offuscano i miei pensieri, mi chiedo, ma quanto sarà strana la vita? Che più avresti voglia di rallentare e tornare a vedere le cose, senza doverle sfiorare solo con uno sguardo, più, guarda un po’, la vita ti fa correre qua e là come una trottola.

Sandra una volta mi ha detto che niente viene per caso: periodi impegnativi, prove difficili… tutto ha un suo perché. Le sue esatte parole sono state: le prove più dure spettano a chi è in grado di affrontarle. Ed io, più ci penso, più mi dico, ma che roba bella è!
Quasi la invidio la sua fede: nella vita, in Dio, nelle persone. Una fede che le fa chiudere un occhio su tante di quelle cose che io penso, muah… e poi le fa dire un sacco di Si: a chi la assilla di telefonate, a chi le affida qualcosa più grande di lei e a chi non fa a pieno il suo lavoro, ma che problema c’è, dice, tanto ci penso io.

Santa donna, la Sandra. Talmente santa che a qualcuno, dopo averla incontrata in giro chissà dove, è capitato di ritrovarsi steso in studio a bocca aperta, sbam! E lei, davanti, intenta a fare il suo lavoro. Domeniche, festivi, pure mentre veniva giù la neve e fuori non c’era anima viva. Lei era lì.

Donne così, ti vien da pensare, averle intorno è una gran fortuna. Badate bene, non ho detto una passeggiata, né un bel aperitivo lungo in cui lasciar lentamente andar via i pensieri. Ma sulla fortuna, credetemi, non vi è alcun dubbio. La santità infatti è una roba impegnativa, che ti mette alla prova, ma ha di positivo che ravviva gli animi e così, alla fine, a forza di starle dietro, in questi anni ci siam fatti un po’ santi anche noi. Dei santi minori, sia chiaro. Anzi, in alcuni casi, sarebbe forse più giusto parlare di beati.

Io son di sicuro tra quest’ultimi. Se una cosa l’ho capita, infatti, è che la strada per il Paradiso è bella ripida e richiede ogni giorno il superamento di noi stessi. Una strada impegnativa, insomma, senz’altro molto lunga. Ed io, be’, non son mica certa d’esser pronta a percorrerla. Allora procedo un passo alla volta, senza fretta, ché io dico, prima di arrivare fin lassù, vuoi che non mi faccio un bel giretto altrove?

Never give up_ Millo
Santiago del Cile

il Venerdì _ 18

Anche a questo giro la settimana è stata un po’ più corta, divisa a metà dalla festa dei lavoratori. Sbam!

Un taglio che tutti noi abbiamo apprezzato alla grande, ché lo studio quel giorno è rimasto chiuso. E menomale, dico io, che se c’è un’occasione in cui tutte le attività che si basano sul lavoro dovrebbero fermarsi, è proprio questa. Altro che Pasqua e Natale!

Mica per niente, eh, è che a goder delle feste dovrebbero essere prima di tutto coloro a cui son dedicate. Ché ok, al giorno d’oggi sembra che niente abbia un valore se non vien condiviso, ma certe cose, dico io, son di chi se le merita.

Il Primo Maggio, ad esempio, è di chi passa ore e ore a lavoro per guadagnarsi da vivere; di chi un’occupazione la sta cercando seriamente e di chi si è trasferito chissà dove per seguirla; ci son poi quelli che l’han persa ma non per questo si sono arresi o chi, per questa, ha perso addirittura la vita. Insomma il Primo Maggio è di queste persone qui, mica di tutti!

Gli altri, quelli abituati a campare sulle spalle altrui, quel giorno lì dovrebbero mettersi all’opera. Non tanto per rendere il favore, quanto per capire un po’ di cose… magari. Ad esempio, che al di là della fatica, il lavoro può dare ad una persona la dignità, roba che chi se ne sta con le mani in mano non sa manco cosa sia, ma la speranza, si sa, è sempre l’ultima a morire.

Un’altra cosa, poi, è la capacità di aprire gli occhi. Il lavoro può anche questo, si, rivelando chi, tra chi ci sta intorno, è degno della nostra stima, della nostra fiducia.

Già, perché mica tutti lo sono eh! Ché anche tra chi lavora ci sono i disonesti, gli scansafatiche, quelli abituati a fare il loro e rizzati, sai. Ma per fortuna c’è anche chi, proprio perché riconosce il valore di ciò che sta facendo, esce dal suo orto, rivolgendo il suo sguardo anche su chi gli sta intorno.

Dove lavoro io, di persone così ce ne son diverse, e menomale, ché correr da sola, credetemi, sarebbe stata davvero una gran fatica. Aver colleghe e colleghi su cui contare è invece una delle fortune più grandi che abbia avuto. Nel delirio che di tanto in tano imperversa da queste parti, è così bello sapere di non esser soli. E allora va a finire che anche se c’è da correre, be’, non è poi così male. Ché se oggi corro di più io, so per certo che domani quel passo in più lo farà qualcun altro.

Non sempre è facile, sia ben chiaro; di sacrifici da fare ce ne sono eccome. Ma in fondo ci si abitua a tutto, anche al sacrificio. Il proprio, certo, ma anche quello degli altri, che anche quando non è rivolto a te, oh, riesce sempre a strapparti un sorriso. Come l’altro giorno, quando davanti a degli ovetti di cioccolato incartati di diversi colori, perché a Teresa non toccasse quello fondente, la Mau non c’ha pensato un attimo e ha detto: “Che problema c’è Tere, ne assaggio uno io e così capiamo quale puoi mangiare e quale no”.

Ed io stavo lì a guardarle, piegate su quei cioccolatini, a pensare che queste, oh, son proprio le colleghe che ci vogliono. Spiritose, leggere e pronte a tutto. Anche a metter su qualche chilo al posto tuo.

il Venerdì _ 17

In questi giorni, l’idea che mi son fatta è che le settimane dovrebbero essere tutte un po’ così: piene di festività, ponti e magari con un solo giorno lavorativo.

Credetemi, non è l’età che avanza che fa passar la voglia e mi rende lavativa. Tutt’altro. È che con l’andar dei giorni, dei mesi e degli anni, mi son fatta quel tanto di esperienza da arrivare a pensare che si, lavorare meno (soprattutto se lo si fa al pubblico), il più delle volte coincide col lavorare meglio.

Oh, non son mica l’unica a pensarla così. Prendiamo ad esempio la famosa rivoluzione svedese, che qualche anno fa ha lanciato l’idea delle sei ore giornaliere al posto delle classiche otto. E a ben vedere, dico io, ché oltre a concederti più tempo per ciò che sta fuori dall’ufficio, certe cose alleggeriscono anche ciò che avviene dentro. Ti fan vivere meglio tutto: gli imprevisti, le alzate di voce, persino il telefono che squilla a diritto. Soprattutto se dall’altra parte c’è una signora come quella che è capitata a me mercoledì, che manco ti dice come si chiama ed è già partita con un: “Vorrei un appuntamento con il dottore quello alto”.
E te pensi: ma come si fa ad avviare una conversazione così? Come se qua dentro, di dottori alti, ce ne fosse uno solo.
Ma dato che sei bella riposata, dici soltanto: “Si ricorda per caso il nome?”.
“No. Ma dai, quello alto – insiste lei – Quello con le lenti”.
Ah, se la mettiamo così…

Insomma, roba che in un altro momento ti avrebbe fatto uscire di testa, ma dato che vieni da giorni di festa e stacco, ti fai una bella risata e via, avanti. Mentre tra te e te ti chiedi se a lavoro ci sei per davvero o se invece tu non sia finita a tua insaputa in una partita a indovina chi.

Bisognerebbe davvero che i giorni e le settimane, fosse sempre così. Come diceva Calvino: bisognerebbe planare con leggerezza sulle cose, ecco cosa. Ma per farlo bisogna prima di tutto esser leggeri noi, ché se poi permane qualche peso, oh, va a finire che invece di planare si cade giù a picco.

Per fortuna, nonostante i ricchi pranzi e le pastiere a non finire, in questi giorni mi son alleggerita e non di poco. Non parlo dello stomaco, eh, ma della mente, che si è fatta vuota, leggera… così tanto che a tratti stento a riconoscerla, ché ultimamente non ci son mica abituata a ‘sta roba qui.

Roba che a dirla tutta non so mica quanto potrà durare. Vedo infatti all’orizzonte il ritorno alla realtà, alle interminabili giornate di lavoro, ché siam già a venerdì e tra due giorni…
Vabbe’, chissene, meglio godersi gli ultimi attimi di libertà guidando sotto questo cielo. E anche se s’è tinto di grigio poco importa, tanto Bob Dylan è qui con me e canta Lay, Lady, Lay, portandomi altrove, a un cielo rosso e lontano, che se ci ripenso, oh, ma chi se lo scorda più quel cielo lì!

il Venerdì _ 16

Se l’andamento della settimana è come il buongiorno, che si vede dal mattino, siamo a posto. Ché a ‘sto giro, va detto, il lunedì, a lavoro, è stata una vera prova di forza.

Tra il telefono che non ne voleva sapere di smettere di squillare e i pazienti, indisposti dal dolore e a loro volta indisponenti, oh, dopo neanche due ore dal mio ingresso in studio, mi son detta, fermate ‘sta giostra, voglio scendere!

Invece, poi, mica son scesa. Ma ho fatto un po’ come facevamo io e i miei amici da ragazzini, quando montavamo sul Tagada con l’idea di stare in piedi, nel mezzo. Il trucco, allora, era non farsi prendere dal panico e non opporsi al ritmo della giostra, ma farlo proprio, fino ad oscillare insieme a lei, sotto ai grandi pini che se ne stavano tra l’Arno e la vecchia cava.
Certo, qualcuno, la sua boccata la batteva comunque, ma provarci era pur sempre una bella sfida, ché alla fine, oh, magari finivi pure per farcela.

Anch’io, alla fine, ce l’ho fatta. E così, per restare in tema di giostre, dopo un lunedì di delirio, la settimana è stato un bel calcio in culo fino ad oggi. Di quelli che un attimo ti senti tirare indietro e quello dopo, via, spinta in avanti, verso il pennacchio. Ché se ti va bene, oh, vinci un altro giro.

Io non lo so mica se l’ho preso o no il pennacchio. Quel che è certo è che le mani l’ho allungate e neanche di poco, ché in questi giorni, in studio, han ripreso a girare dolci.

Sarà che la Pasqua è vicina o che, vuoi o non vuoi, ce lo si legge in faccia che abbiam bisogno di un po’ di dolcezza. Al sapore d’uvetta, come quella di Danilo, o al gusto del cioccolato che ci ha portato la Lia.

Insomma, a noi la dolcezza piace un po’ in tutti i modi, anche quando ha un retrogusto un po’ esotico, come quella di Aziza, che sa di sesamo e noccioline e viene dal Marocco.

C’è poi un altro tipo di dolcezza, che niente ha a che fare col palato, ma è comunque riuscita ad allietare la nostra mattina. È quella della signora Rina, che ieri, a 92 anni suonati, s’è presentata in studio sorreggendosi al braccio di suo figlio, con un mazzolino di fiori viola tra le dita. Son del mio giardino, ha detto, e li ha allungati verso di noi, in regalo. E così, in un attimo, ci ha riempito gli occhi e pure il cuore, ché se fuori la primavera sta lentamente prendendo il via, be’, ne accogliamo con piacere un po’ anche dentro. Soprattutto se a portarcela è una signora sorridente, amante delle piccole cose, e con addosso uno sgargiante golf color lilla, che più la guardo, oh, più, anche lei, somiglia ad un bel fiore.

il Venerdì _ 15

Se c’è una cosa che adoro è quando due persone si capiscono con uno sguardo. Se poi tra quelle persone ci sono anch’io, be’, allora è fatta.

Un po’ come ieri, con la Clau, quando al termine del suo appuntamento, la signora Paola è filata via sotto i nostri occhi. Nessun cenno di saluto, nessun pagherò. Una corsetta e via, fuori. E noi lì, indaffarate come al solito, una al telefono e l’altra pure, senza parole, ma comunque capaci di voltarsi d’istinto l’una verso l’altra e scambiarci un’occhiata in cui ci stava dentro un po’ di tutto.

In quel tutto, a prevalere, è stato senz’altro lo stupore.
Già. Perché sebbene in questi anni se ne sian viste di ogni, qua dentro c’è chi riesce ancora a stupirsi. Il che, dico io, non è mica cosa da poco.

Lo stupore, infatti, porta con se un sacco di belle cose: espressioni indefinite, sobbalzi, sonore risate, e poco importa se son di quelle incredule, a tratti isteriche. L’importante è ridere, ché ridere, si sa, allunga la vita.

Ah, no, quello era il telefono. Be’, allora noi della segreteria siamo apposto. Avremo una vita lunga, ma così luuuunga.

Un po’ come quella del signor Giuseppe, che ha quasi novant’anni e un questi giorni è venuto in studio per sistemarsi i denti.
Ma alla bona, eh, ha detto, ché tanto tra un pochino…
Tra un pochino, che?
Eh, tra un pochino…

Insomma, lui i denti non se li vuol levare, ché finché stan su, si tien quelli che ha. E chissene se il sorriso è un po’ storto, tanto lui mica si vede. E ride.

Mentre dice questo lui non fila via come la Paola. Si sofferma al bancone, fa due chiacchiere, sorride. Quando lo fa solleva le guance e gli occhi prendono a brillare. Pare un ragazzino.

Pare, certo, perché poi fa due passi e torna ad essere l’uomo che è, in là con l’età e un po’ acciaccato. Due passi ancora e si volta. La giannetta, oh, ancora un po’ e me la dimentico, dice.
E lì, quando lo sento dir giannetta mi riporta indietro nel tempo, a quando ero solo una bambina e giravo per le strade di questo paese convinta che il mondo fosse tutto qui. A Incisa. Massimo Figline. Forse.

Altri tempi, caro Giuseppe, lontani e ormai belli che andati, ma grazie per avermici riportato, ché tornar bambini, ogni tanto, non fa altro che bene.

il Venerdì _ 14

Ci son giorni in cui son ripetitiva e non faccio altro che chiedermi: ma chi me lo fa fare di star qui, a perder la testa in questa gabbia di matti?

Quei giorni ormai li riconosco al volo, ché chissà come, oh, nonostante gli sforzi, non ne va una dritta e l’aria dentro si fa pesante, ma così pesante che l’unico modo per risollevarsi un po’ è aprir le finestre e farne circolare di nuova. Che entri negli studi, attraversi i corridoi e s’infili fin negli spogliatoi, purché sia fresca e capace di riportare un po’ di buonsenso, assieme al buonumore.

Quella che ha soffiato in questi giorni è stata esattamente così, fresca e convinta, tanto che oltre ad aprir le finestre, le ho proprio spalancato le porte.

Se ‘un si sta attenti e’ ci porta via tutti, m’ha detto un paziente. Già, ho risposto, ma la porta mica l’ho chiusa, ché di questi tempi val la pena correre il rischio ed esporsi al vento. Chissà, magari, a forza di soffiare, ti sorprende, portando con sé sorrisi, pensieri felici e qualche nuova idea.

È proprio così che è andata ‘sta settimana. E mentre il vento soffiava, ostinato, per spazzar via fino all’ultima nuvola, è stato capace di portar con sé un sacco di bella roba.

Tra le tante, son certa, ricorderò le pagine di carta che racchiudono gli “Aforismi sulla saggezza del vivere” di Schopenhauer.

Il signor Jurgen è venuto fino allo studio per regalarmi quel libro, e l’ha fatto in una mattina qualunque, rapido e gioioso, esattamente come una folata di vento. E poco importa se non ho idea di quando riuscirò a leggerlo, ché il tempo, oh, per leggere sembra non esserci mai. Ciò che conta è che quei pensieri adesso siano qui, di fianco a me, ché quelli, si sa, sono un po’ come il buon vento che soffia alle spalle, mai abbastanza.