Il ritmo della domenica

È una domenica mattina di quarantena, l’ennesima, quando una voce rompe il silenzio assolato che regna là fuori. Grida convinte, che sebbene bussino intermittenti ai vetri delle finestre, riescono comunque a scuotermi dal torpore in cui mi trovo da un paio d’ore, come ipnotizzata davanti al monitor del mio pc.

Tanto vale alzarsi e sgranchirsi un po’, penso. Così mi affaccio alla finestra e sento che quell’andirivieni di parole vien proprio da sotto di me, roba che potrei fare una capriola e ritrovarmi anch’io ad urlare a squarciagola insieme a quella donna le più belle hit italiane degli anni 80.

Èèè… l’amico èèè… Grida a squarciagola. E mentre canta si sposta da una stanza all’altra, regalando a tutto il vicinato un effetto da far invidia alle famose canzoni in 8D che nelle scorse settimane han preso a girare in rete.

Mentre lei salta da un pezzo all’altro, io torno indietro nel tempo, a quando La notte vola si ballava di notte, con i lustrini addosso ed un gin tonic in mano, mica come adesso, che lo si fa in pigiama durante le ormai quotidiane pulizie di casa.

Certo che i tempi son proprio cambiati… e adesso che splende questo bel sole e in giro non si vede anima viva, quelle notti sembrano ancora più lontane, quasi come se non le avessi mai vissute e come se i ricordi che mi pizzicano la mente appartenessero a qualcun’altro.

Allora me ne sto un po’ lì, poggiata alla finestra con la mente chissà dove, quando d’un tratto quella voce di donna vien surclassata da qualcosa di ancora più convinto.
È il ritmo caraibico sparato a tutto volume dalla terrazza dei miei vicini, quelli del Sudamerica, capace in un attimo di mettere a tacere i ricordi e riempire l’aria d’intorno con un’energia frizzante che da a tutti il buongiorno.

Si riscuote dal torpore persino il signore che abita nel palazzo davanti, il quale fino ad ora era rimasto disteso sul suo balcone come una lucertola al sole, cappello di paglia in testa e indosso un sobrissimo costume a slip – alla faccia delle cabine di plexiglass dell’estate 2020-, mentre adesso ha anche lui lo sguardo rivolto ai Caraibi.

Del resto di questi tempi il bisogno di ritrovarsi altrove è tale che a quel ritmo non solo permettiamo volentieri di entrarci in testa, ma anche nel corpo. Così, un po’ alla volta, le finestre intorno si aprono e le persone si scoprono incapaci di star ferme, ognuna come può a muovere il bacino.
Lo muovo pure io, ormai ai Caraibi insieme a loro, lontana da Coverciano e da questi palazzi, che si son fatti spiaggia dorata.

Il sole sbatte in faccia un po’ a tutti, tranne a noi che siamo esposti a Nord, ma la brezza del mare… Be’, quella arriva fin qui, e mentre sballettiamo all’ombra dell’enorme ombrellone che è il tetto sulle nostre teste, un desiderio sorge spontaneo: un mojito, please.

La mascherina

È un giovedì pomeriggio di quarantena, l’ennesimo, quando metto finalmente piede fuori casa.
Non capita spesso negli ultimi tempi – una/due volte a settimana – ed il motivo è sempre lo stesso, scritto a chiare lettere sull’autocertificazione: LAVORO.

Nel silenzio delle 13.30 il sole mi sbatte in faccia caldo e per niente intimidito, ben diverso da quando ormai 38 giorni fa tutta ‘sta storia ha avuto inizio.

È un attimo ed il cancello si chiude alle mie spalle, sbam, impaziente di sputarmi fuori, ma io resto immobile dietro la mia mascherina, a chiedermi: dove diavolo l’avrò messa la macchina?

Son passati diversi giorni, infatti, da quando l’ho usata l’ultima volta ed ora sono qui che mi guardo intorno e mi sforzo con tutta me stessa per richiamare all’ordine i ricordi.

Immagini si susseguono nella mia mente l’una dietro l’altra – il bar, la scuola, la Coop…-, quando le voci di due uomini attirano la mia attenzione. Se ne stanno poco più in là, uno sul balcone e l’altro in strada – anche lui mascherato come me -, che ridono e scherzano. Allora, sarà che son le uniche due anime vive nel deserto che è la città in questi giorni – soprattutto all’ora di pranzo – ma mi viene spontaneo spingermi verso di loro.

Sul balcone sventola un bel tricolore e c’è anche una signora in là con l’età che un po’ alla volta ha raggiunto la ringhiera; ora la stringe tra le mani e si abbandona quieta su di essa a faccia all’insù ed occhi chiusi, lasciandosi accarezzare dal sole.

Quando passo di lì sotto, i due uomini si voltano verso di me e mi salutano gentili, così ricambio con piacere: un cenno della testa e una bella strizzata di occhi, ché s’abbia a vedere che sono una buona vicina e dietro alla mascherina gli sto sorridendo.

Questo breve incontro mi da la giusta motivazione per saltare in auto e partire, pronta a fare al meglio il mio dovere. Quando però mi ritrovo sotto a quel balcone – stavolta in auto – mi accorgo che qualcosa è cambiato. Le voci infatti si son fatte grosse e anche piuttosto serie. Allora rallento un po’, abbasso la musica e butto giù il finestrino.

“Ora scendo e tu vedi!”, grida il tipo dalla terrazza. Un po’ stupita mi volto verso l’interlocutore, che però scopro non essere più quello di prima, ma un ragazzo che avrà si e no 25 anni e che, solo in mezzo all’incrocio e sprovvisto di mascherina, gli risponde per niente intimorito: “Oh vieni! – grida – Vieni giù a dillo!”.

La mascherina. Dev’essere quella la questione che il tipo del balcone non riesce proprio a mandar giù e così ribadisce: “Tu fai anche i’grosso?! Ma braaavo… Braaavo…” e mena le mani in aria, come a voler dire che se solo ce l’avesse a portata gliele avrebbe già messe addosso. Be’, per fortuna vige il distanziamento sociale.

Anche se le botte se le danno solo a parole, la gente inizia comunque ad affacciarsi alle finestre. Si affaccia persino Francesco, ché sebbene si trovi a qualche centinaio di metri da lì, quelle grida son così convinte da buttarlo giù dal divano.

Mentre l’attenzione di tutti è ormai rivolta a quei due, la signora di fianco sembra però non essersi accorta di nulla. Se ne sta al sole, faccia all’insù e occhi chiusi, esattamente come poco prima, con la stessa espressione impassibile e beata, come a dire, fate quel che vi pare, prendetevi pure a mazzate, basta che non rompete le scatole a me.

Vederla da quaggiù è uno spettacolo, tanto che sebbene la scena abbia del grottesco non riesco davvero a non ridere, ma appena lo faccio, d’istinto afferro la mascherina che avevo appena posato sul seggiolino di fianco e me la metto di nuovo.

La cosa non ha alcun senso, lo so – sono in auto e pure da sola – ma sebbene quelli che stiamo vivendo siano tempi eccezionali, be’, la regola resta sempre la stessa: meglio ave’ paura che buscanne. Qua sotto, poi…

Gita fuori porta

Sono appena le 9 di un lunedì mattina di quarantena, l’ennesimo, quando decidiamo che sebbene la giornata scorrerà esattamente come tutte le altre (cucina-bagno, bagno-divano, divano-cuc… etc etc), è comunque giunta l’ora di alzarsi e tuffarsi in un buon caffè.

Fuori la città ancora se la dorme, avvolta in un silenzio che chissà come sembra più silenzioso del solito. Sarà mica che ce l’abbiam fatta? Mi chiedo. Sarà mica che in fondo siamo migliori di quel che sembra e così abbiamo afferrato il messaggio che anche se oggi è Pasquetta, oh, tocca stare a casa e la scampagnata la faremo tra la camera da letto ed il balcone?

Mentre son già pronta a gridare al miracolo, una voce nella mia testa mi richiama all’ordine. Ohhh! – grida – non sarà troppo presto per cantar vittoria? Così torno con i piedi per terra e butto giù il mio caffè, mentre dalla finestra entra una bell’aria fresca.

In strada non si vede nessuno, a parte una signora che cammina tranquilla tranquilla sul marciapiede sotto casa, mascherina a coprirle mezza faccia e via.

È l’unico essere umano in circolazione, fino a quando dal palazzo in cui abito non esce una signora – leggermente più giovane – con i suoi due mini cani al seguito.

Mentre attraversa il vialetto che separa il portone d’ingresso dal cancello che da sulla strada, i guinzagli le si attorcigliano in ogni dove, ma questo non sembra rappresentare in alcun modo un problema. Nonostante il tira tira, infatti, lei va dritta per la sua strada, fino all’interruttore. Si piega leggermente, uno Zzzzz elettrico risuona nell’aria ed il cancello si apre.
È fatta.

Quando mette piede fuori, però, si accorge dell’altra signora – quella tranquilla e solitaria di poco fa – che un passo alla volta si è spinta fin quasi all’altezza del cancello.

Da daaaaaan. Tempismo perfetto.

È un attimo e senza alcun preavviso da Coverciano mi ritrovo nel Far West, tra sguardi che s’incrociano a distanza e silenzi che minano ad innervosire la rivale. In realtà, la prima signora – quella che camminava in solitaria – non sembra poi tanto nervosa, ma resta comunque immobile, e così entrambe prendono ad osservare le mosse dell’altra, per poi poter calcolare le proprie.

Frazioni di secondo che sembrano interminabili, in cui i cani ne approfittano per agitarsi un po’. Finalmente infatti sono fuori e la natura li chiama, ma la padrona adesso ha tutt’altro per la testa e così li tira a sé, nervosa. Allora l’altra signora dice: “Vada pure, vada” e le fa spazio. Ma la padrona risponde con un: “Vada lei…” e mentre indietreggia leggermente, fa un ceno un po’ stizzito con la mano.

La signora allora china leggermente la testa per ringraziare e procede lungo il marciapiede, stando ben attenta ad allargare un po’ la traiettoria per schivare il terzetto che le sta di fianco. E così, un passo alla volta si allontana, tranquilla e silenziosa, esattamente come poco prima.

Il cancello del cortile si chiude. È un tonfo che scuote il silenzio che regna intorno. Tutto risolto, pare. Ma a quel tonfo seguono a ruota dalle parole, che guarda un po’ son della signora con i cani, la quale d’un tratto si volta verso l’altra ed abbaia qualcosa del tipo: “Dico io, ma le pare il caso di camminare qui?”. Indica il marciapiede, indignata, non sapendo forse che quello non è affatto di sua proprietà e se proprio la si vuol dire tutta, cara la mia signora, se c’era qualcuno che avrebbe dovuto tirarsi indietro quella era lei; e senza far storie, eh, ché la signora se ne stava tranquilla e beata in cammino ben prima di voi. Ma evidentemente fermarsi a riflettere prima di sputar fuori parole a caso non è da tutti e infatti lei continua: “Avrebbe potuto camminare più in là, non le pare?” e indica l’altro marciapiede, forse la strada.

Ma si, chissene! La prossima volta meglio se se ne va in mezzo alla strada, sembra voler dire, e mentre lo dice io son lì che osservo il suo delirio pensando che ahimè, mi sbagliavo. Non siamo affatto migliori di come sembra; per lo meno non tutti. Ma un cosa è certa: la vita è davvero meravigliosa… da quassù.

Per un tozzo di pane

Sono quasi le 13 di un sabato di quarantena, l’ennesimo, quando il silenzio che ormai regna in ogni dove viene rotto da delle grida, che da fuori un po’ alla volta si spingono fin dentro casa.

Saranno i sudamericani, pensiamo. Così ci affacciamo alla finestra. Ma stavolta i vicini non c’entrano. Dal loro balcone, infatti, vien solo della musica e il fatto che sia sparata a tutto volume, be’, a ‘sto giro non è poi così male visto che stanno ascoltando i Guns.

Le grida di poco prima, però, continuano a spingersi fin quassù, più forti e convinte che mai, così guardiamo in strada, dove un uomo si agita furioso. Una busta vuota in una mano e il cellulare nell’altra. “Manco un tozzo di pane”, dice a chissà chi. E poi chiama a rapporto un po’ tutti i santi del paradiso – come se da lassù potessero in qualche modo aiutarlo col suo tozzo di pane… “Mezz’ora in fila – continua indicando la bottega poco più in là – per poi scoprire che hanno finito il pane. Oh, manco un tozzo! Ma guarda se uno per un po’ di pane dev’essere costretto a farsi più di un’ora di coda alla Coop”.

È nervoso, accidenti se lo è. E noi lo guardiamo dall’alto, ma a quanto pare non siamo gli unici, visto che anche i sudamericani si son portati sul terrazzo e guardano giù, mentre Axl Rose continua a cantare Sweet Child O’Mine come se nulla fosse.

È una pioggia di madonne anche se in cielo splende un gran sole e per quanto nella vita sia facile dar la colpa gli altri, la cosa più ovvia da dire, caro mio, è che avoglia a sbraitare, ma in una piccola bottega di quartiere come quella in cui sei entrato, come diavolo pensi di trovare del pane a quell’ora lì il sabato prima della domenica di Pasqua? Suvvia, sveglia!!

Ma il tempo dei flash mob e delle urla dalle finestre è finito, così mi tengo tutto per me. Tanto a dar spettacolo ci pensa lui, che ormai è incontenibile. “Sai icchè ci vole in questa città? – riprende sdegnato – ci vole l’Isis… e poi si fa un bel parcheggio, sai. Manco un tozzo di pane!”.

E noi siamo lì, senza saper se ridere o piangere, certi solo d’una cosa: sarà una Pasqua meravigliosa; e questo è solo l’inizio.

***

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Buoni propositi

Cinque giorni, sei ore e 37 minuti.
Sono ben cinque giorni, sei ore e 37 minuti che Eloisa non butta giù un goccio d’alcol.
Mentre se ne sta distesa sul letto, i secondi continuano a scorrere e tra qualche secondo saranno cinque giorni, sei ore e 38 minuti. Poi passeranno altri secondi, i minuti aumenteranno e lo stesso accadrà alle ore e ai giorni. Sempre che Eloisa tenga fede al suo proposito.

Sonia smetterà di darla sempre vinta a sua figlia. È questo che si è ripromessa di fare, che mica vuole una figlia viziata, lei. Allora martedì sera,all’aperitivo, se n’è venuta fuori con questa storia:
– Ragazze da domani la voglio smettere. Sì, la voglio smettere di darla sempre vinta a quella peste di mia figlia – e mentre lo diceva agitava in aria il bicchiere, lasciando cadere qua e là gocce di spritz.
– Che storia è questa? – le ha chiesto Marina.
– Ma quale storia e storia? – l’ha interrotta Sonia – Questo è un proposito serio, ne va del futuro di mia figlia e io, beh, voglio tener fede a questo proposito –
– Se è per questo anch’io ne ho uno – ha detto allora Marina.
– Di cosa? –
– Di proposito. Bisogna sempre averne uno, no? E il mio è di non interrompere più Paolo quando parla e di non dirgli di stare zitto quando se ne viene fuori con le sue stronzate sul calcio –
– Ma questi non sono due?- ha chiesto Eloisa.
– In effetti… Che dite,dovrei sceglierne uno? –
Dopo il secondo mojito la scelta di Marina era ricaduta sul secondo, il più difficile tra i due, perché lei il calcio non lo sopporta proprio. Lo considera,anzi, una sciagura, che peggio in vita sua non le poteva capitare. Se mai il suo matrimonio dovesse finire, Marina non ha alcun dubbio,sarà colpa di un fallo in aria non concesso e dell’ennesimo“Arbitro cornuto!”.Riuscire a stare zitta davanti agli sproloqui di Paolo sarà un’impresa, ma lei ci vuole comunque provare. Per amore si fa questo ed altro.
Eloisa invece l’amore l’ha dimenticato da un bel po’. Forse è per questo che prima di martedì non aveva alcun proposito. La storia con Sandro è finita da quasi un anno, e nel peggiore dei modi. Lui con un’altra, lei a pezzi. Una catastrofe. Per rimetterli insieme, quei pezzi, le ci erano voluti dei mesi. A suo modo era stato un proposito anche quello, rimettersi insieme. Uno di quei propositi che neanche te ne accorgi, barcolli, fai un passo avanti e due indietro, ma alla fine li porti a termine e ti ritrovi intera.

– E te Isa? – le ha chiesto Marina – Te che proposito hai? –
Eloisa era rimasta in silenzio. Un tempo le era saltato in mente di andare all’anagrafe e cambiare nome, ché a lei quel nome lì, Eloisa, pareva un po’ altisonante. Nessuno l’aveva mai chiamata così a parte sua mamma e forse se aveva sempre la testa tra le nuvole era anche a causa di quel nome. Isa le sembrava decisamente migliore. Essenziale, fresco, proprio come il gin tonic che stava buttando giù quando la domanda di Marina le aveva riportato alla mente quel periodo. Un sorso e un altro ancora, per poi ricordarsi che a fermarla, allora, era stato il dispiacere, quello che avrebbe arrecato a sua mamma quando le avrebbe detto che si era sbarazzata del nome che lei amava tanto. E così, addio proposito.
Da allora non se ne era posti altri e, anche martedì,aveva fatto scena muta.
– Quindi? – aveva chiesto Sonia.
– Quindi niente –
Era finita lì, avevano cambiato discorso. Ma Eloisa quel pensiero se l’era portato a casa e per l’intera notte non s’era data pace. Com’era possibile che lei, a trentaquattro anni, non avesse un proposito a cui mantener fede?Cristo santo! Come diavolo era possibile?

L’indomani si era alzata con gli occhi gonfi di sonno. Anche la pancia non scherzava, gonfia pure quella, sebbene ultimamente non mangiasse un granché. Beveva,quello sì. Del resto il lavoro la stava consumando e a fine giornata non c’era niente di meglio che dei buoni amici e un buon gin tonic. Solo che poi i gin tonic diventavano due, tre… E ora, quei gin tonic erano tutti lì, sulla sua pancia. Vi poggiò sopra le mani, davanti allo specchio, proprio come fanno le donne quando aspettano un bambino, che si guardano e ridono. Prima un lato, poi l’altro, poi ridono di nuovo. Mentre Eloisa, nella sua pancia, non ci trovava proprio niente da ridere.
Così, mentre si guardava allo specchio, le passò in mente che anche lei aveva il sacrosanto diritto d’avere un proposito. Niente a che vedere con un marito o dei figli. Al diavolo il marito e i figli! Eloisa voleva un proposito tutto suo, di quelli buoni, buoni sul serio, a cui tener fede solo per se stessa, che se c’era qualcuno per cui valeva davvero la pena darsi da fare, quella era senz’altro lei. Allora s’era detta: “Niente più alcol, bella mia”. Si era guardata allo specchio, prima un lato, poi l’altro, e aveva accennato un sorriso. “Niente più alcol”. E così era stato, negli ultimi cinque giorni, sei ore e 37 minuti.

Sono le dieci di sera quando il portone di casa sbatte. Eloisa se ne sta sul letto,sonnecchia. Un’altra giornata d’inferno a lavoro. Dopo la doccia s’è buttata sulle coperte ed è rimasta lì fino a quando il portone non ha sbattuto, costringendola ad aprire gli occhi. Alla TV c’è Russell Crowe, che più passano gli anni più si fa bello. Eloisa lo guarda in silenzio. Ha sete, ma mica d’acqua. Le ci vorrebbe un gin tonic. Solo che lei ha un proposito e ce l’ha da cinque giorni, sei ore e ormai 43 minuti. Non può venir meno al suo impegno, non adesso, non lo farebbe neppure se Russell Crowe le piombasse in camera in carne ed ossa con un bel gin tonic. O forse sì?
Smette di pensarci quando il telefono prende a squillare. È Nino. Lei non risponde. Sa già cosa vuole dirle: usciamo? Infatti un attimo dopo glielo scrive in un messaggio.<Usciamo?C’è anche Marina>.
Eloisa si alza dal letto, srotola l’asciugamano intorno alla testa e lascia che i capelli le cadano sulle spalle. Sono ancora umidi, freschi, come un sorso di gin tonic, quando prima di farselo scendere in gola se lo tiene un po’sulle labbra. No, non è il caso di uscire. Non stasera. Prende il telefono e avverte Nino.<Magari domani, oggi faccio passo>.

Intanto nel corridoio si sentono dei rumori. Porte che si aprono, scatoloni che cambiano di posto. Dev’essere una di quelle sere in cui Marisa, la padrona di casa, non riesce a dormire e si mette a fare ordine. Quella donna non è mica tutta rifinita, ma a Eloisa poco importa: per quanto paga d’affitto avere a che fare con i suoi sbalzi d’umore è un buon compromesso. Si chiude a chiave nei suoi venti metri quadri assieme a un libro e a Russell Crowe, e si rimette a letto. Butta giù qualche riga, mentre Russell, muto, continua a muoversi sullo schermo. Qualche riga ancora e poi di nuovo lui. Quel libro è davvero una noia infernale, tanto che buttar giù righe diventa sempre più difficile. Poi a un tratto suona il campanello. Eloisa sobbalza, mentre sente Marisa affrettarsi per aprire il portone: – È lui, Mauro, è senz’altro lui. È arrivato –
I passi svogliati dell’anziano marito seguono la donna nel corridoio.
– Piano – dice lui –o finirai per svegliare tutti! –
Ma lei niente, apre il portone e si lancia in un grido: – Oh Gin, che bello averti qua! Benarrivato Gin. Com’è andato il viaggio, eh Gin, com’è andato?-

Gin? Cosa diavolo…? Eloisa è incredula. Forse avrebbe fatto meglio a dare ascolto a Nino e a diminuire l’alcol un po’alla volta. – Un bicchiere ogni tanto che male vuoi che faccia? – aveva detto lui. Ma lei s’era intestardita e aveva detto basta tutto d’un botto. Il gin le sarebbe mancato, questo lo sapeva, ma non immaginava certo che un proposito potesse arrivare addirittura a darle le allucinazioni. D’un tratto le voci nel corridoio svaniscono, Eloisa si alza per aprire la finestra. Aria fresca, ecco di cosa ha bisogno, ché la mente quando ci si mette può giocare davvero dei brutti scherzi. Mentre ride di se stessa si lascia accarezzare dall’aria fresca della sera. Tutt’intorno è un gran silenzio, la città riesce anche a fermarsi di tanto in tanto. Non crede alle sue orecchie. Non ci crede neppure quando dalla stanza accanto, la voce della signora Marisa torna a farsi sentire. – Gin caro – dice la donna – sarai stanco,arrivare fin qua dal Giappone. Vieni, ti faccio vedere la tua stanza –
Forse l’aria non è abbastanza fresca. Eloisa scuote la testa per riaversi. Ma poi strizza gli occhi miopi nel buio e vede un ragazzo di spalle davanti ai due anziani. “Gin? Allora esiste davvero!” pensa. Non sa se essere felice o meno,certo però non vede l’ora di raccontare a Nino che dopo cinque giorni, sei ore e 53 minuti senza buttar giù un goccio d’alcol, si ritrova un Gin come vicino di stanza. Davvero un bello scherzo.
Sente dei passi nel corridoio. Corre alla porta, ci sbatte contro e si attacca allo spioncino. Un ragazzo le passa di fronte. Eccolo Gin. Ed ecco Marisa,tutta sorridente, che scivola sulle sue pattine fino a fermarsi proprio davanti alla sua stanza.
– È questa – dice la donna, mentre apre la porta di fronte – mettiti pure comodo, Gin, ci vediamo domani –
Il ragazzo fa un leggero inchino.
– Grazie. A domani – dice lui, in un italiano perfetto che stona con i suoi lineamenti orientali.
– Ah, questo – aggiunge lei prima di dileguarsi – ho pensato potesse farti piacere, visto che… beh… – e porge qualcosa al giovane.
Marisa chiude la porta e nel corridoio torna il silenzio. Gin resta sulla soglia, fermo, con in mano un pacco di riso che osserva interdetto. Marisa stavolta ha davvero superato se stessa. Un pacco di riso! Eloisa non crede ai suoi occhi. Vorrebbe tanto essere con Nino e Marina per riderne insieme. Invece è lì da sola, ma ride comunque, oltre la porta. Ride così forte che Gin alza la testa e in un passo si avvicina allo spioncino. Merda. Eloisa indietreggia. Si porta una mano alla bocca, soffoca il riso. Ma lui resta lì, si aggiusta il colletto della camicia, senza muoversi d’un passo. Allora lei avanza di nuovo, furtiva, e torna ad osservarlo.

Ha i capelli annodati in un codino sopra la testa e dei bei baffi. Occhi scuri che emergono da due fessure sopra gli zigomi e che son lì a guardarla senza vederla.Eloisa ci si perde. Si perde in quel volto sconosciuto, fresco,esattamente come un sorso di gin tonic che scorre in gola. Non ha mai provato un gin giapponese. Adire il vero non ne ha mai nemmeno sentito parlare. Chissà se lo fanno, il gin, in Giappone? Se lo chiede mentre Gin continua a fissarla immobile. Lei fa lo stesso. E più lo osserva, più sente aumentare la sua sete. Se avesse con sé un gin tonic lo butterebbe giù tutto d’un sorso, ma da cinque giorni, sei ore e 57 minuti ha un proposito a cui deve tener fede. Da stasera però ha anche un nuovo vicino e ora che se lo ritrova davanti, beh, non è niente male, tanto che butterebbe giù un sorso anche di lui.
Gin sorride, sembra quasi le abbia letto nel pensiero. Magari anche lui ha voglia di farsi un goccio. Potrebbero farselo insieme. Ma si allontana e raggiunge la sua stanza. Prima di chiudere, però, guarda un’ultima volta verso di lei, oltre lo spioncino, e alza la mano in segno di saluto, per poi svanire dietro la porta.

Eloisa resta immobile, a bocca asciutta. Adesso ha davvero una sete pazzesca. Sono cinque giorni, sette ore e 2 minuti che non butta giù un goccio d’alcol. Le resta comunque l’acqua, certo, ma vuoi mettere con un buon gin tonic a fine giornata. Indietreggia fino a ributtarsi sul letto. Russell Crowe è ancora in TV, muto come prima, ma tanto a uno così mica servono parole. Lo guarda, mentre intanto s’infila gli shorts, poi la canottiera. Lo guarda, sì,ma non lo vede. La sua mente infatti è oltre la porta, da quel Gin giapponese che se ne sta nella stanza di fronte alla sua.
Chissà se è più un Martin Miller o un Plymouth? I suoi occhi scuri danno l’idea di un sapore deciso, speziato. Eloisa prende il cellulare. Nessuna notizia di Nino. Neppure Marina si è fatta sentire. Saranno al pub a raccontarsi le solite storie, a buttar giù sorsi. Maledetti loro, che la sua gola è sempre più secca ed ha così voglia di un gin tonic che teme d’essere sul punto di buttare tutto all’aria. Invece no, stavolta è davvero decisa a tener duro, così d’un tratto si alza dal letto e spegne la TV. Nella dispensa tra le confezioni di pasta si nasconde un pacco di riso; lo prende e si fionda sulla porta. Quella che sta per fare è una cazzata, una cazzata enorme, Eloisa lo sa bene, ma sono cinque giorni, sette ore e 8 minuti che ha una tale sete che…“Al diavolo!”e si fionda nel corridoio.

La stanza di Gin è esattamente di fronte a lei. Eloisa fa un profondo respiro, si da un’aggiustata ai capelli e poi bussa, senza pensarci oltre. La portasi apre lentamente e dalla penombra affiora il volto del ragazzo.
– Ciao – dice lei. Lui resta immobile, la guarda in silenzio. Eloisa rimpiange di non essere andata con gli altri. Ora sì che le ci vorrebbe un gin tonic, con del vero gin e anche bello forte.
– Quello? – chiede lui indicando il pacco di riso.
– Ecco– dice lei – ho pensato potesse farti piacere –
Lo dice facendo il verso alla signora Marisa, ma lui resta serio. Osserva quel riso in silenzio, poi a un tratto torna a guardarla negli occhi. Stavolta però sorride e lo fa in un modo che a Eloisa torna in mente il gin tonic bevuto a Torino qualche mese prima. Di quella sera ricorda tutto, la piazza, il tavolino a cui sedeva, ricorda l’esatto sapore del gin e, mentre ricorda, i secondi continuano a passare, tanto che ormai sono cinque giorni, sette ore e 9 minuti che non butta giù un goccio d’alcol.

Difronte a lei c’è Gin, che non è mica un gin come gli altri, di quelli da bar a cui è abituata. Questo Gin è diverso. Eloisa lo pensa sul serio. Potrebbe infatti avere a che fare con lui senza per questo dire addio al suo proposito. Mica male, che stavolta è intenzionata ad andare fino in fondo.

Così sorride e allunga una mano: – Piacere, Isa –
– Gin –

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L’indiano

La sirena risuonò nella notte, scuotendo le pareti di cemento armato.
Senza nemmeno alzare lo sguardo gli operai mollarono gli strumenti. Fu un tonfo d’oggetti metallici, una sinfonia. Anche Pado Gonzalo vi prese parte. Nonostante non avesse ancora raggiunto i quaranta d’età, erano anni che lo faceva, così tanti da poter quasi ambire al ruolo di direttore d’orchestra, là dentro.
I musicisti in tuta blu raggiunsero l’uscita, una fila indiana di gambe strascicate e facce smunte. Timbratura del cartellino e via al coro dei saluti: A domani. Buonanotte. Bona merde! Qualcuno si fa un goccetto? Ma quale goccetto, vai a letto bischero!

Pado si appoggiò al cancello e tirò fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca del bomber, osservando i colleghi allontanarsi di ritorno alle loro vite. – Hai da accendere? -, chiese Mattia. Un sì con la testa e poi finalmente una boccata d’ossigeno dopo la lunga notte in fabbrica.
– Com’è andata? -,domandò Mattia a mezza bocca tenendo salda con l’altra metà la sigaretta.
– Al solito, regolare. -Le parole di Pado non dicevano niente, ma era un niente che Mattia comprendeva alla perfezione, fatto di gesti ripetitivi, di grasso cheti s’incrosta alle mani e di un bonifico a fine mese. Un niente che per loro valeva un sacco.

Mattia dette un occhio al cellulare: – Cazzo, devo darmi una mossa. – Un ultimo energico tiro e gettò a terra la sigaretta.
– Aspetti visite? –
– Si. –
– La solita? –
– Si. –
– Sbaglio o la cosa si sta facendo seria? –
– Se una scopata ogni tanto si può definire una cosa seria… –
Pado sorrise: – Credimi, c’è più serietà in certe scopate che in tanti discorsi di mia moglie. – Mattia gli dette una pacca sulla spalla: – Buonanotte amico mio. –
Pado restò solo. La quiete della notte era rotta dal rumore della fabbrica alle sue spalle, che grazie al continuo avvicendarsi di nuove braccia non cessava mai la sua attività. Con qualche passo s’allontanò dal cancello e da quel rumore, che ormai confondeva con quello del cuore che gli batteva in petto.

C’era stato un tempo in cui aveva sognato d’aprire un ristorante messicano. Un piccolo pezzo della sua terra d’origine in quella d’adozione. Che gran figata, si era detto. E invece la vita gli si era messa di traverso. Con la morte del padre infatti, da ventenne ribelle quale era si era dovuto fare uomo. “A volte, caro ragazzo, è la vita a scegliere per noi”, aveva detto il capo officina davanti a quel giovane dalla mano tremante. Pado l’aveva guardato negli occhi, scorgendovi sua madre e i suoi fratelli, così aveva stretto la penna tra le dita e con una firma aveva appeso al chiodo il suo bel sogno.
Cazzo, erano passati quasi vent’anni da allora. Tanti. Troppi? Di sicuro abbastanza da non riuscir più a distinguere il suo odore da quello di un sogno marcito.
Si chiese, perché tornare a casa? Se avesse avuto una bella ragazza ad aspettarlo come Mattia, certo le cose sarebbero state diverse; ma il suo letto era già occupato da sua moglie Rosa. Decisamente meglio starne alla larga.
Che tipa strana, aveva pensato il giorno in cui si erano conosciuti. Avrebbe fatto bene a darsi ascolto, ma Pado non se ne dava mai abbastanza, così aveva finito per innamorarsene e sposarla. Un piccolo pezzo di donna con la paura del buio, tenera. Solo che quella paura le era un po’sfuggita di mano, tanto d’aver bisogno di compagnia nelle lunghe notti in cui il marito si assentava per lavoro.
Lui non si era accorto di niente. O aveva fatto l’indiano? Fatto sta che alla fine Rosa gli aveva pure chiesto il divorzio. E così, in attesa che lei trovasse una nuova sistemazione, a Pado non restava che il divano.
Se la vita a cui tornare era quella, beh, tanto valeva restarsene là fuori.

Camminò per qualche minuto, fino a un incrocio. La via a destra l’avrebbe condotto a casa, quindi svoltò a sinistra. Fece lo stesso altre due volte. La notte era la migliore amica che potesse avere, perché abbandonarla?
Al suo fianco il fiume scorreva lento. Si sedette nel buio ad osservarlo, sotto una luna pallida. Poco distante un’auto dai finestrini appannati sballottava. Finalmente un po’ d’amore. Poi, nel buio, dei passi. Pado non era certo un tipo impressionabile, ma si guardò intorno portando una mano al tagliaunghie nella tasca dei pantaloni. Un uomo comparve alle sue spalle. Un corpo minuto stretto in un elegante completo scuro e un sacchetto di plastica in mano.
-Posso? -, chiese facendo cenno di sedersi sulla panchina.
Pado si fece più in là e lui poté accomodarsi.
Si sarebbe aspettato qualche parola, ma seguì solo del silenzio. Allora Pado si voltò verso quel tipo dai lineamenti orientali e lo sguardo fisso sul fiume: -Tutto ok? –
L’uomo fece cenno di sì con la testa e tirò fuori dal sacchetto una birra:- Vuoi un goccio? –
-Volentieri, – buttò giù un sorso amaro e chiese – dì un po’,vieni qui spesso? –
-Tutte le sere. –
-E cosa fai? –
-Aspetto. –
-Devi aspettare qualcosa di molto importante se vieni qui ogni sera. –
Seguirono altro silenzio, altri sorsi di birra. La bottiglia passava di mano in mano. Pado dette un occhio, vide che era a fine. – Tranquillo, –disse l’uomo, – ne ho altre due. –
I fari dell’auto alle loro spalle li illuminarono. Fu un attimo, il motore s’accese e l’auto sfrecciò via in un gran frastuono.
-Sai che si dice dalle mie parti? – esordì l’uomo. – Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico. –
Pado si voltò verso di lui, deglutì preoccupato e buttò fuori la prima cazzata che gli passò per la testa: – Da dove vieni? –
– Dàlián, Cina –silenzio – E tu, dì un po’, sei uno di quei mezzi indiani d’America? –
Questa storia dell’indiano lo perseguitava da quando era un ragazzo. I suoi occhi in effetti erano un po’ allungati e gli zigomi sporgenti ricordavano quelli di un pellerossa, ma con gli indiani Pado non aveva mai avuto niente a che fare, se non per lo scalpo che gli aveva fatto la vita. La sua terra d’origine era il Messico, da lì proveniva il suo sangue, ma lui non era tipo da dar troppe spiegazioni. Che lo credessero pure un indiano.
Anche quella sera, in riva al fiume, non disse né sì né no. Si voltò e prese ad osservare lo scorrere incessante dell’acqua. “Chi è il fortunato che stiamo aspettando?”, chiese.
Per la prima volta l’uomo stacco gli occhi dal fiume e si voltò verso di lui: “Il mio capo – disse serio – lo aspetto da giorni”.
All’idea che da un momento all’altro potesse materializzarsi il cadavere di quell’uomo, Pado rabbrividì.
– Cos’ha fatto per meritarsi questo? –
– Mi ha rovinato la vita,ecco cosa – il tono si fece alterato. –Sono stato a disposizione dell’azienda ogni istante degli ultimi tre anni. Domeniche, notti, bastava una telefonata e io correvo in ufficio. Poi si sono fatti avanti nuovi soci, forze fresche, come le chiama lui, e per me non c’è stato più spazio. Così, da un giorno all’altro, mi ha gettato via come una carta sporca.-
Una pallina di carta sporca e consunta attraversò la mente di Pado. Accidenti se gli somigliava. Strizzato, consumato e poi gettato via, lo stesso che era accaduto a lui.
-Purtroppo non ho abbastanza coraggio per ucciderlo – riprese l’uomo, e Pado tirò un sospiro di sollievo, – né tanto meno soldi per fa fare il lavoro a qualcun altro. – Buttò giù un sorso di birra. – Ma il tempo certo non mi manca e sai una cosa? Quando arriverà quel momento io sarò qui a godermi lo spettacolo. –

La sua sete di vendetta strideva con l’elegante completo grigio che aveva indosso. Mentre il fiume continuava a scorrere davanti a loro, quell’uomo dava in pasto alla notte la sua rabbia. Un grido di ribellione che afferrò Pado per il collo, ma invece di soffocare lui ne rimase affascinato.
Chissà se dentro di sé aveva mai corso tutta quella vita?
Forse si, ma doveva essere accaduto un bel po’ di tempo addietro, tanto da essersene dimenticato.
Il suo sguardo si perse nel fiume. Uno specchio d’acqua scura in franto dal chiarore della luna. Poi, d’un tratto, qualcosa venne a galla. Un corpo. Non uno a caso, ma quello di Rosa. Cosa diavolo ci faceva lì? Gli mancò il fiato in gola. Chiuse gli occhi e quando li riaprì Rosa non c’era più. Al suo posto, l’uomo con cui l’aveva trovata a letto. Aguzzò la vista. Il corpo adesso era quello del capo officina. Continuò a galleggiare ancora un po’ davanti a lui, finché non svanì.
Pado si stropicciò gli occhi, guardò l’uomo che gli stava di fianco. Lo trovò impassibile, quindi tirò un sospiro di sollievo. I due rimasero in silenzio, fino a quando quell’uomo non gli passò la bottiglia: – E tu, chi aspetti? –
La domanda lo colse di sorpresa, la birra gli andò quasi di traverso.
-Nessuno – rispose Pado. Voce tesa e un’alzata di spalle come ad allontanare da sé ogni sospetto per gli omicidi appena commessi.
L’uomo si lasciò andare ad una risata: – Ma non dire cazzate! –, tracannò ciò che restava di quella birra e aggiunse – Aspettiamo tutti qualcuno – lo guardò dritto negli occhi, – Tutti. – E tornò ad osservare il fiume.

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Lettera a un tostapane

Caro mio, la vita è capace di farti fare cose che mai avresti immaginato. Penso a Lucio, la prossima settimana farà il suo primo lancio con il paracadute, o a Francesca che ha mandato a quel paese il capo ed è andata a Tokyo a lavorare per la concorrenza. Penso a loro, certo, e penso a me che a trent’anni mi ritrovo a scrivere al mio tostapane. Bizzarro, non credi? Ci sono un sacco di persone a cui avrei potuto scrivere e invece, per una volta che mi decido a prendere carta e penna, mi rivolgo a te. Meglio non farlo sapere in giro.

La sveglia è suonata alle 7.40 come ogni mattina. È domenica e detto tra noi avrei voluto dormire un po’ di più, ma mi sono buttata giù dal letto lo stesso. Ho raggiunto la finestra ad occhi chiusi e quando il mignolo del mio piede si è scontrato su di te, me ne son venuta fuori con il puntuale “Porca puttana!” di buongiorno.

Sono mesi che va avanti così tra noi. Dovrei trovarti una sistemazione migliore. Il pavimento non è il posto per un tostapane, lo so, ma tu non sei come gli altri. La prima volta che ci siamo incontrati era Natale. – Auguri amore mio – ha detto lui. Ho guardato con stupore la scatola che teneva in mano, grande e decorata a festa. Eri quello di cui avevo bisogno, in questo è sempre stato un asso. L’odore del pane caldo avrebbe finalmente accompagnato i miei risvegli.

L’indomani t’ho portato a casa mia. Avrei potuto darti un benvenuto migliore, invece ti ho messo ai piedi del letto in attesa che arrivasse una casa nuova, con un letto, un divano e una cucina per una vita a due. Ci sarebbe voluto qualche mese, ma ne sarebbe valsa la pena.

Di mesi ne sono passati dieci. Io sono ancora qui, lui a casa sua e tu ai piedi del mio letto. Sull’onda delle incomprensioni naufragano i migliori propositi, lo stesso è accaduto a noi. – Così non possiamo andare avanti – ci siamo detti. Siamo stati a fissarci in silenzio un bel po’, decisi a non perderci, e giorno dopo giorno ci siamo reinventati. “Amici” a quanto pare. Mi chiedo se sia stato davvero così o se, tutto sommato, non fossimo gli stessi di prima sotto mentite spoglie.

La giusta distanza per tornare a camminare ognuno sulle proprie gambe, non abbastanza per dirsi addio del tutto. Siamo andati avanti, certo, ma tra baci, carezze e la volontà di preservarci dal passare del tempo. Ho pensato spesso al giorno in cui non avrei più avuto sue notizie, né lui di me. L’ho temuto. Un po’ come si temono i fantasmi, mai abbastanza. Invece quel giorno è arrivato via sms: “Mi vedo con una”. Ho pensato, perché me lo dice così? Deve esserselo chiesto anche lui perché da allora non l’ho più sentito. È che la vita non ti aspetta. Chiunque tu sia, la gente va avanti e lo fa sul serio, mica come me che continuo a inciampare nel passato ogni mattina. Allora sai cosa, caro il mio tostapane, è giunta l’ora di uscire da questa maledetta scatola.

Doveva capitare, prima o poi, e questo è il giorno in cui il poi diventa realtà.
Il lo sono.

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Lettera a un cervello in fuga

Bologna, 27/07/2017

Caro mio, la vita non è altro che un susseguirsi di onde.
Basta osservare il flusso degli eventi per capirlo, per capire che quella in cui viviamo è una stagione di mare grosso, in cui i più navigano ormai a suon di biglietto di sola andata.

Negli ultimi mesi ho salutato molti marinai, pronti a salpare in cerca di un porto migliore di questo. Amici, colleghi, così detti ‘cervelli in fuga’. Sono meno in moto di loro, certo, ma spero davvero di non adagiarmi sulle parole e di non dimenticare mai le storie, i volti, le mani e le braccia che stanno dietro a quei cervelli. Decine, centinaia di braccia che ogni giorno sfidano il mare nel tentativo di intercettare la buona onda.

I marinai li riconosci da lontano: biglietto di sola andata in tasca e occhi che luccicano. Sono affascinanti, entusiasti e timorosi al tempo stesso, regalano sorrisi a denti stretti e abbracci che non finirebbero mai.

Oggi tocca a te, marinaio amico e fratello.
Sei pronto?
È una domanda stupida, lo so. Che ci vuoi fare? Le sorelle a volte sono così, stupide al punto giusto da perdere le parole. M’impegno a frugare tra i pensieri ma non trovo di meglio, così li metto a tacere e ti guardo allontanarti. Passo sicuro e spalle grosse, pronte a sostenere i tuoi sogni.
Un istante dopo svanisci oltre il gate.

Non sei ancora partito e già mi chiedo quando ci rivedremo. Che stupida! Mi rattristo all’idea che passeranno mesi, eppure non verso una lacrima. La tristezza mi prende allo stomaco, mi svuota. È come avere fame all’improvviso, ma è chiaro che mangiare non servirà a molto, certamente non a rimpiazzare quel pezzo di me che stai portando oltreoceano.

Eppure dovrei essere abituata. Ho consegnato pezzi di me in mani amiche e anch’io che resto qui a sorvegliare il porto ne ho piene le mani, di preziosi pezzi altrui. Li custodisco gelosamente e mi moltiplico con loro.

Ripenso a quando era bambina, una bambina felice e intera. Ti farà sorridere che mi definisca così, ma dopo il tuo arrivo intera non lo sono più stata. Con te ho appreso molte cose, in primis la suprema arte della divisione. Sei entrato nella mia esistenza a gamba tesa, prendendoti tutto: camera, giocattoli, attenzioni e anche una consistente parte del mio cuore. Avrò avuto si e no cinque anni quando l’ho capito. Mancava poco all’ora di cena e non so come, a un tratto ti ritrovasti con la testa incastrata tra lo schienale e il piano impagliato di una sedia. Ricordo il mio pianto disperato nel sentire la nonna dire: “Non si può mica rovinare la sedia, gli si taglierà la testa”.
Crescendo abbiamo avuto litigi, attraversato l’immancabile fase dell’indifferenza adolescenziale, ma oggi ringrazio il cielo che quella testa sia rimasta al suo posto.

Un aereo prende il volo, alzo lo sguardo.
E così te ne sei andato anche tu.
Lo dico ma non ci credo. Allora me lo ripeto, che se c’è qualcuno a cui devo credere quella sono io. Ma continuo a non prendermi sul serio. Sarà che sono passati solo pochi minuti, che ho lo stomaco pieno di buchi ma non mi sento sola. Fuori splende il sole e non riesco neanche ad essere triste, non quanto vorrei.
Allora sai che ti dico fratellino?
Avanti, tuffati!
La tua buona onda ti sta aspettando.

IRENE ROMANO

http://festivaldellelettere.it/vincitrice-2017/

Lettera a un cervello in fuga

15 ottobre 2017

E insomma, è andata così.

Mi sono svegliata alle 6.40, che era ancora buio. Doccia, vestiti, borsa e fuori, più spedita che con un calcio in culo.

È andata che mi son detta prendi un Ataf per una volta, che ti fai sempre i chilometri a piedi, che questo rifiuto della comodità inizia a renderti noiosa. Così è andata che ho preso l’Ataf.

E il biglietto? Alle 7.15 la città ancora dorme. Per lo meno la domenica, per lo meno la parte di città in cui vivo. Per fortuna, però, esistono gli sms, così è andata che ne ho inviato uno al 4880105 per il biglietto elettronico.
Ma ecco, è andata che non è andata, perché certi servizi funzionano solo per gli utenti dei gestori seri, mica come me che ho Postemobile. Ma è andata che io mica lo sapevo, l’ho scoperto che ero già sull’autobus, senza biglietto e con un’ansia che metà bastava.

E andava. Si, l’autobus andava, ma non abbastanza da impedire a quel tipo di salire e dire Biglietti prego.
Allora ecco com’è andata.

È andata che gli ho spiegato tutto: i bar chiusi, l’sms… ma lui non si è mosso di un millimetro. Un documento per favore. Va bene la patente? No, preferisce la carta d’identità scaduta. Contento lui.

Poco distante 2 rom iniziano a litigare con il suo collega. Le dispiace scendere che il collega è in difficoltà? Così scendiamo tutti, io, loro e i rom. Che allegra combriccola.

Ci mettiamo solo pochi minuti, dice.

A dire il vero avrei un treno da prendere. Ah, ferma un Ataf alle mie spalle e ci fiondiamo dentro. Addio collega, addio rom. È andata.

Buona giornata, mi dice alla stazione e mi consegna il verbale. 55€. Limortac… Buongiorno a lei.
È andata che la prossima volta me ne vado a piedi.

Salgo in treno, un attimo di quiete. Ma giusto un attimo, eh, che due infermiere attaccano a parlare: turni, riunioni, ma come è antipatico tizio? E caio?

Io leggo, ascolto la musica, mi rigiro, le maledico. Milano non è mai stata così lontana. Ma è andata che alla fine la raggiungo, assieme a 4 buoni amici, ché gli amici o son buoni o che ce li hai a fare?

Sono a Milano. Com’è che andata?
È andata che qualche mese fa un amico mi ha parlato di un festival, il Festival delle Lettere. Tema dell’anno: Lettera a un cervello in fuga.

Perché no?
Così ho scritto. Ho scritto al cervello più in fuga che conosco.
Mio fratello ha la testa sempre in fermento e due spalle grosse, ma così grosse che quando fugge lui smuove altro che aria.

Era l’ora che gli scrivessi, a mio fratello.Così è andata che qualche settimana fa mi è arrivata una mail: sei tra i finalisti. Pare avessero concorso in centinaia. Bella storia!

Oggi eravamo lì, io e tanta bella gente. Un’attrice ha letto le mie parole, una ragazza le ha illustrate con forme e colori. È andata che da centinaia siamo rimasti in dieci, poi tre, e il cuore batteva, cazzo se batteva, e le mani tremavano un po’, e poi… e poi niente, è andata così…

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