Lisbona, 31 gennaio

Io, c’ho ‘sto vizio di mettermi lo zaino in spalla e via, che a pensarci, certo, ci son vizi ben peggiori, ma anche questo non è mica da poco, ché se poi incontro qualcuno come me, pensavo, è un gran bel casino: metti che gli zaini diventano due, chi ci ferma più?

Ora che quel casino se ne sta seduto di fianco a me su questo aereo, ripenso ai primi passi mossi insieme, ormai più di un anno fa. I miei erano leggeri, ma a tratti, lo ammetto, son stati anche di piombo, ché allora, mica lo conoscevo questo casino qui.

Ad essere sincera non lo conosco del tutto neanche adesso. Ma per certe cose si dice non basti una vita intera, quindi non ha senso star qui a preoccuparsi, ché non lo so mica se mai ce l’avremo tutto quel tempo, io e lui.

La cosa comunque non m’interessa, ché anche se adesso siamo in due, io non son certo cambiata e invece di perder tempo a pensare, be’, preferisco senz’altro godermelo, il tempo, soprattutto oggi che sono a Lisbona.

Ero qui anche un anno fa, da sola. Il ricordo di quei giorni mi scalda il cuore quasi quanto l’esser di nuovo qui, stavolta in compagnia di questo bel casino. Uno di quelli belli davvero, in cui buttarsi a capofitto per non uscirne più, ché anche a lui piace vagare senza meta per le vie di questa città, starsene in silenzio in riva al Tago, riempirsi gli occhi e pure la stomaco, ché è finalmente arrivata l’ora di pranzo e dico io, non ce lo facciamo pulvo e bacalhau?

Per smaltire, poi, saliamo fino al Chiado, che è un bel po’ all’insù, ma noi andiamo convinti, a capo basso, ché se ci scoraggiamo oggi che siam solo all’inizio, dico io, dove diavolo pensiamo di andare?
E chissene se a una certa inizia a piovere, i piedi si fan zuppi d’acqua e i capelli arruffati, ci chiudiamo al caldo in un pub nel Barrio Alto, e con due belle birre, be’, ecco che passa la paura.

Lettera a un cervello in fuga

15 ottobre 2017

E insomma, è andata così.

Mi sono svegliata alle 6.40, che era ancora buio. Doccia, vestiti, borsa e fuori, più spedita che con un calcio in culo.

È andata che mi son detta prendi un Ataf per una volta, che ti fai sempre i chilometri a piedi, che questo rifiuto della comodità inizia a renderti noiosa. Così è andata che ho preso l’Ataf.

E il biglietto? Alle 7.15 la città ancora dorme. Per lo meno la domenica, per lo meno la parte di città in cui vivo. Per fortuna, però, esistono gli sms, così è andata che ne ho inviato uno al 4880105 per il biglietto elettronico.
Ma ecco, è andata che non è andata, perché certi servizi funzionano solo per gli utenti dei gestori seri, mica come me che ho Postemobile. Ma è andata che io mica lo sapevo, l’ho scoperto che ero già sull’autobus, senza biglietto e con un’ansia che metà bastava.

E andava. Si, l’autobus andava, ma non abbastanza da impedire a quel tipo di salire e dire Biglietti prego.
Allora ecco com’è andata.

È andata che gli ho spiegato tutto: i bar chiusi, l’sms… ma lui non si è mosso di un millimetro. Un documento per favore. Va bene la patente? No, preferisce la carta d’identità scaduta. Contento lui.

Poco distante 2 rom iniziano a litigare con il suo collega. Le dispiace scendere che il collega è in difficoltà? Così scendiamo tutti, io, loro e i rom. Che allegra combriccola.

Ci mettiamo solo pochi minuti, dice.

A dire il vero avrei un treno da prendere. Ah, ferma un Ataf alle mie spalle e ci fiondiamo dentro. Addio collega, addio rom. È andata.

Buona giornata, mi dice alla stazione e mi consegna il verbale. 55€. Limortac… Buongiorno a lei.
È andata che la prossima volta me ne vado a piedi.

Salgo in treno, un attimo di quiete. Ma giusto un attimo, eh, che due infermiere attaccano a parlare: turni, riunioni, ma come è antipatico tizio? E caio?

Io leggo, ascolto la musica, mi rigiro, le maledico. Milano non è mai stata così lontana. Ma è andata che alla fine la raggiungo, assieme a 4 buoni amici, ché gli amici o son buoni o che ce li hai a fare?

Sono a Milano. Com’è che andata?
È andata che qualche mese fa un amico mi ha parlato di un festival, il Festival delle Lettere. Tema dell’anno: Lettera a un cervello in fuga.

Perché no?
Così ho scritto. Ho scritto al cervello più in fuga che conosco.
Mio fratello ha la testa sempre in fermento e due spalle grosse, ma così grosse che quando fugge lui smuove altro che aria.

Era l’ora che gli scrivessi, a mio fratello.Così è andata che qualche settimana fa mi è arrivata una mail: sei tra i finalisti. Pare avessero concorso in centinaia. Bella storia!

Oggi eravamo lì, io e tanta bella gente. Un’attrice ha letto le mie parole, una ragazza le ha illustrate con forme e colori. È andata che da centinaia siamo rimasti in dieci, poi tre, e il cuore batteva, cazzo se batteva, e le mani tremavano un po’, e poi… e poi niente, è andata così…

http://festivaldellelettere.it/vincitrice-2017/