il Venerdì _ 04/2023

Non so voi, ma dove lavoro io il trend del momento è che ognuno ha la tendenza a voler fare il lavoro degli altri.

Quello della segreteria, poi, pare sia tra i più ambiti. Un lavoro che vogliono fare tutti: pazienti, genitori dei pazienti, nonni dei pazienti… e come se loro non bastassero ci si mettono anche i dentisti, alcuni dei quali si divertono a farci perdere la testa con mille spostamenti e incastri nell’agenda quasi come fossimo in un bar negli anni ’80 a giocare a tetris invece che in uno studio medico.

Negli ultimi tempi si è impennato il numero di coloro che si sentono in grado di fare questo lavoro meglio di noi che lo facciamo tutti i santi giorni da un bel po’ di anni. Anni che possono sembrare niente ma che invece, credetemi, voglion dire aver maturato una bella esperienza per quanto riguarda la conoscenza delle esigenze delle singole persone e la gestione dell’agenda.

In ogni modo, se c’è chi digerirebbe poco bene queste ingerenze nel proprio agire quotidiano, io e le mie colleghe abbiamo optato per una soluzione più saggia del bruciore di stomaco che consta più o meno nel non ostacolare questa tendenza ma nel seguire con serenità il flusso e lasciar fare agli altri ciò che desiderano, ché in fondo nella vita c’è di peggio di qualcuno che vuol lavorare al posto tuo. Non credete?

Ammetto che non mi dispiacerebbe poter fare come ho fatto fino ad ora contribuendo col mio bagaglio d’esperienze e di competenze a far scorrere meglio il lavoro, ma evidentemente questo è un momento in cui si deve assecondare il bisogno di qualcun altro, lasciandogli l’illusione di avere il controllo su tutto, perfino sul tuo lavoro. Ché quando ci metton mano loro pare venga meglio… pare.

Certo dispiace un po’ che al giorno d’oggi siano sempre più le persone che si sentono in diritto di mettere bocca nelle vite altrui e sempre meno quelle che invece son capaci di fare spazio all’altro e fidarsi, o di slanciarsi con audacia in qualche buona parola. In effetti si fa decisamente molto prima a criticare.

Ma fortunatamente non per tutti è così. L’altro giorno, ad esempio, mi trovavo in studio e avevo appena concluso un pagamento con un signore. Un tipo preciso e metodico, che prima di andarsene ci ha tenuto a prendere un nuovo appuntamento e poi è uscito, salutando cortese.

Pochi istanti più tardi, però, eccolo di nuovo sulla porta. Il volto serio. Ma che dico serio, serissimo.
Una cosa che peggio, credetemi, non può capitare. Perché mentre stai già seguendo il paziente successivo, la tua mente inizia a chiedersi: perché mai sarà rientrato? Qualcosa è andato storto? Di sicuro. Ma cosa?

Arrivato nuovamente il suo turno, l’uomo si avvicina e dice: “Le devo dire una cosa”.
“Prego”.
“Lei è l’unica… – riprende serio, e lì già ti aspetti l’ennesima bega – l’unica che spilla lo scontrino sulla fattura nel posto giusto”. Si lascia andare a un sorriso.
“Ah!”, tiro un sospiro di sollievo.
“Dico sul serio, eh, negli altri uffici lo spillano sempre nel punto meno opportuno: sull’intestazione della fattura, sul codice fiscale… così tocca ogni volta toglierlo e riattaccarlo” .
“Be’, grazie per avermelo detto. Chissà cosa temevo… “.
“No guardi, davvero – apre le braccia, per poi scandire gioioso – Fan-tas-ti-co!”, lasciando me e le mie colleghe stupite e sorridenti.

Ora, sia chiaro, non è che si pretenda ogni giorno un’ovazione di questo tipo, a braccia aperte e gioia a profusione, ma se c’è da dirsi una cosa bella impariamo a dirla senza riserve. Anche se si tratta di un semplicissimo scontrino. Ché male di sicuro non fa. Né a voi né a chi se la sente dire.

il Venerdì _ 03/2023

Per il Venerdì di marzo mi era balenata in testa l’idea di scrivere qualcosa sulle donne con cui lavoro.
Penserete che banale, scrivere di donne proprio nel mese della festa internazionale a loro dedicata. In un primo momento l’ho pensato anch’io, così mi son presa un po’ di tempo prima di farlo; giusto quel mesetto perché potesse venirmi in mente altro di cui scrivere.

Poi, neanche a farlo apposta, qualche giorno fa è accaduta una cosa che inaspettatamente ha riportato la mia attenzione proprio sulle donne. E allora, mi son detta, donne siano!

Ero a lavoro e come spesso accade stavo procedendo a dei richiami telefonici per sollecitare il rientro di alcuni mancati pagamenti.
Uno dei pazienti sulla mia lista quel giorno doveva saldare 70€, lasciate in sospeso dopo aver fatto un’estrazione a gennaio e non essere più tornato.

L’uomo, da prima ha risposto senza problemi, ma quando ha capito il motivo della mia chiamata ha letteralmente dato di matto. Prima ha gridato “Ma non vi vergognate a chiamarmi per 70€?!” poi, biascicando sproloqui in un misto di italiano e rumeno ha aggiunto “Io vengo quando voglio, quando avrò i soldi. E non mi chiamate più!”.

Ora, premesso purtoppo che questo non è né il primo né l’ultimo cafone prepotente con cui ho avuto/avrò a che fare in questa vita, va detto che una parte di me lo ringrazia perché, nonostante la mia iniziale incredulità davanti al suo repentino voltafaccia, mi ha dato lo spunto per affrontare un argomento che con le donne c’entra eccome, anche se per rimpallo, ed è la misoginia.

Penserete, che esagerata… Invece no. Perché quello stesso soggetto che mi ha urlato al telefono è lo stesso che quando si era presentato in studio dolorante aveva preteso che a curarlo fosse un uomo perché lui, le donne, non le considera all’altezza di quel compito. A suo dire, infatti, le donne devono fare altro e soprattutto devono stare al loro posto (…che a quanto pare dev’essere quello che indica lui) senza permettersi di alzare la testa e men che mai di metterlo davanti a un torto, chiedendogli ad esempio soldi per un servizio di cui ha usufruito ma che lui si prende la libertà di non voler pagare.

Per questo parlo di misoginia e lo faccio a ragion veduta, perché non è la prima volta che con le mie colleghe ci accorgiamo di come alcuni uomini, proprio perché si trovano davanti ad una donna, si lasciano andare a reazioni esageratamente prepotenti e autoritarie, addirittura violente.

Un uomo, ad esempio, un giorno è venuto in studio tutto arrabbiato gridando “Voglio parlare con la dottoressa subito o questa protesi che la m’ha fatto gliela sbatto in faccia!”.

Sia ben chiaro, con tutta la gente che ho visto e sentito in questi anni ho smesso d’impressionarmi da tempo di ciò che può uscire da certe bocche, ma espressioni del genere non possono lasciarmi indifferente per la loro violenza inopportuna.
Gliela sbatto in facciaMa gliela sbatto in faccia cosa???
Cafone!

Ma le donne, ho imparato a capirlo, al cospetto di certi sguardi son sempre un gradino sotto. E infatti sono certa che se di fronte a loro, invece di una dottoressa ci fosse un dottore, col cavolo che quegli stessi soggetti si esprimerebbero in un simile modo.

E’ triste, lo so, ma pur essendo nel 2023 la realtà è ancora questa. Bisogna prenderne atto per lavorarci su con impegno e costanza, perché il velo d’ignoranza che certe persone hanno davanti agli occhi e che pericolosamente tramandano a chi gli sta accanto, rischia di minare l’entusiasmo e la vitalità di tante donne che nel lavoro colgono l’opportunità di esprimere al meglio se stesse.

Una delle più grandi fortune che ritengo di avere in questo momento sono proprio le donne con cui condivido le mie giornate lavorative. Scompigliate e sempre di corsa – divise tra casa, famiglia, lavoro… e chi più ne ha più ne metta – per far sì che tutto fili il più liscio possibile, ma comunque intraprendenti e instancabili.

Siamo tante, con età ed esperienze diversissime, e questo lo ritengo un prezioso valore aggiunto. Oltre a non annoiarsi mai, infatti, questa diversità offre a tutte noi l’opportunità di un confronto continuo e autentico. E ognuna, spronata dall’esperienza dell’altra, è sempre pronta a mettersi in gioco, a rinnovarsi, a rompere gli schemi, senza né remore né timori.

Sono convinta che di questa energia, positiva ed eccezionalmente creativa, ce ne sia davvero un gran bisogno (alla faccia di chi ci vorrebbe privare di tutta la nostra vitalità). Soprattutto al giorno d’oggi, dove a prevalere sembra invece essere il sopruso sull’altro.

Va da sé, quindi, che a noi tutte, come si dice dalle mie parti: d’un poraccio misogino ce ne frega una sega! Per andare avanti, però, e per di più farlo al meglio è importante non abbassare la guardia. E così, quando l’altro giorno un signore si è avvicinato a me e alla mia collega e ci ha detto in tono sprezzante “Queste mascherine vi donano” ho pensato subito che stesse alludendo al fatto che ci mettessero a tacere. Ero pronta a rispondere a tono, ma prima che riuscissi a dire qualcosa lui ha aggiunto “Vi risaltano gli occhi, così belli e sorridenti”.

Sorpresa, gli ho sorriso restando in silenzio. Per questa volta l’abbiamo scampata… Allora non tutto è perduto, c’è della speranza!

il Venerdì _ 02/2023

Tutto in questo mondo va a periodi: la moda, le tendenze musicali, il modo in cui si portano i capelli… persino le parole che si usano.

Negli ultimi anni, ad esempio, complice la pandemia si son fatte largo nel linguaggio comune le parole resilienza ed empatia.
Due parole di cui, a mio avviso, la maggior parte della gente fino al marzo 2020 nemmeno conosceva l’esistenza, ma dopo quanto accaduto, chissà come, sembra che ognuno abbia subito una trasformazione grazie alla quale ci sentiamo tutti resilienti e soprattutto mooooolto empatici.

Sarà che col lavoro che faccio, per me la resilienza è pane quotidiano da tempi non sospetti. Proprio come l’empatia. Vuoi mettere avere a che fare ogni giorno con decine e decine di pazienti alle prese con orari da far tornare, lamentele, richieste di sconto, consigli (non richiesti) su come fare il mio lavoro da chi nella vita fa tutt’altro… E così, va da sé che quando mi capita di sentire una di queste due parole vengo subito colta da un moto interiore di repulsione.

Per carità, la colpa non è certo la loro, di quel susseguirsi inconsapevole di lettere. Bensì di chi se ne riempie la bocca, privandole nella pratica di tutto il loro prezioso significato.

A tal proposito, il luogo in cui lavoro è un punto d’osservazione perfetto. Grazie al quale, dopo anni e anni di attenta analisi, posso permettermi di dire che pochi di quelli chi si ritengono empatici lo sono veramente.

Pendiamo quanto accaduto l’altro giorno, ad esempio.
È un pomeriggio come tanti quando si presenta in studio un ragazzino accompagnato dal babbo. La visita – della durata programmata di 30 minuti – è volta a controllare l’andamento della terapia ortodontica fissa. E fin qui niente di strano, siamo dal dentista. Se non fosse che il ragazzino in questione si presenta non solo con 2/3 attacchi staccati – il che implica un tempo maggiore per sistemare la cosa -, ma anche con i denti talmente ricoperti di tartaro per la scarsa igiene da costringere la dottoressa a ripulire il tutto per poter intervenire sull’apparecchio.

Il risultato, inevitabile, è stato che l’appuntamento invece di 30 minuti ne è durati 75, con un conseguente ritardo a pioggia sui pazienti successivi.

Cose che capitano, penserà qualcuno, del resto dai medici funziona così. E in effetti è vero. Scoccia dirlo, ma quando si ha a che fare con i medici spesso le cose vanno così. Ma in fondo è anche vero che è una ruota che gira, e se una volta tocca a te aspettare la volta successiva ad aspettare sarà un altro. E avanti all’infinito.

Pensate infatti che l’ultima volta che questo ragazzino era venuto in studio, era toccato a lui aspettare. Ma evidentemente, il babbo, non conoscendo la sopracitata regola della circolarità, allora non aveva perso tempo ad assalire la segreteria con lamentele e pretese di puntualità.

Stavolta, invece, i genitori degli altri si solo avvicinati gentilmente per chiederci cosa stesse accadendo visto tutto quel ritardo.
“La dottoressa ha avuto un imprevisto, ma ha quasi finito”, abbiamo detto. Perché se una cosa l’abbiamo imparata è che la verità, talvolta, da queste parti va tenuta nascosta. Soprattutto se c’è il rischio che in sala d’attesa gli animi si scaldino. Meglio che non si sappia in giro che il ritardo è dovuto a un paziente che si è presentato con la bocca a pezzi senza avvisare, costringendo la dottoressa ad un lavoro di 75 minuti invece di 30. Insomma… meglio per lui che non si sappia.

E infatti anche quel giorno noi non l’abbiamo detto a nessuno. E neanche il babbo, mentre aspettava il figlio in sala d’attesa sempre più gremita di pazienti, ha proferito parola. Se n’è stato zitto, dando l’impressione di aver finalmente capito che certe cose possono capitare. A chiunque, persino a tuo figlio. E se l’altra volta hai atteso, stavolta sei tu che stai facendo attendere gli altri.

Non nego che il silenzio defilato di quell’uomo ha infuso in noi segretarie più d’una speranza. Perché un paziente che prende coscienza della condizione dell’altro o del suo stato d’animo – sia esso un collega, un dottore o un altro paziente – è sempre un gran successo. Ma la nostra speranza ha avuto vita molto breve e infatti si è frantumata nello stesso istante in cui il ragazzino, finita la seduta, è riapparso in sala d’attesa.

Non appena l’ha visto il babbo è balzato in piedi, l’ha preso per la mano e, senza neanche accennare un saluto ai presenti, è uscito di corsa pronunciando un risentito “Mai più e mai poi”.

E noi siamo rimaste lì, senza parole, alla faccia dell’empatia, sai!

Lanzarote _ 03

Dopo aria, acqua e terra, oggi è stato il turno del fuoco.

In un’isola come questa, dove la natura da sfoggio di sé nei modi più disparati, mi pare giusto dare spazio un po’ a tutti. Allora, invece di spingerci a nord come gli altri giorni, una volta giunti a Yaiza abbiamo svoltato a sinistra per attraversare il Parque Nacional de Timanfaya: una sconfinata distesa di colata lavica sulla quale svettano le Montanas del Fuego, originate da uno dei più grandi cataclismi vulcanici della storia.

Un luogo affascinante e magico, che la magia stamani l’ha fatta sul serio, facendomi tornare bambina in un baleno. È successo nel momento in cui sono scesa dall’auto e mi son trovata davanti a degli enormi ammassi di lava solidificata, tra i quali, incapaci di resistere, io e Francesco ci siamo incamminati per raggiungere poi la Caldera Blanca.

Piccola lo sono stata per un bel po’, anche quando sotto ai piedi avevo la sabbia nerissima di Playa del Janubio e negli occhi il riflesso accecante delle saline.

Perché tornassi grande c’è voluta una cerveza ghiacciata. Ne abbiamo bevuta una a El Golfo, mentre le onde dell’oceano si schiantavano violente sulla scogliera e noi, senza alcun pudore, ripulivamo l’ennesima deliziosa cazuela di pulpo, gamba y champinones a suon di scarpetta.

Forse avremmo potuto trovare un altro modo per salutare Lanzarote, ma a noi è sembrato decisamente il migliore; per dirle ciao e ringraziarla per essere riuscita in così poco tempo a regalarci tutta la sua meraviglia.

Lanzarote _ 02

Che il vento a Lanzarote fosse una costante l’avevamo capito.
A quanto pare, però, lo scompiglio che regna tra i nostri capelli da quando siamo arrivati sull’isola non è abbastanza e infatti oggi abbiamo deciso di oltrepassare El Rio e raggiungere La Graciosa.

Una traversata che ha coinciso con la mezz’ora più lunga della mia esistenza. Trascorsa in balia della furia dell’Atlantico, a bordo di un traghetto che s’impennava manco fosse un cinquantino, inclinandosi prima a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra…

Insomma, in quella mezz’ora io e Francesco abbiam fatto una tale scorpacciata di mare che, una volta arrivati nel piccolo isolotto, abbiam pensato bene di buttarci nell’entroterra senza passare dal via e darci in pasto alle sue dune sabbiose, interrotte qua e là da alti rilievi striati di rame.

Là, tra quelle dune, ricoperte di cespugli e chiocciole bianche, abbiamo scoperto che La Graciosa è graziosa sul serio, soprattutto quando dopo una buona ora di cammino il mare torna a farsi vivo, ma stavolta è calmo e pronto a deliziarti con le sue infinite tonalità d’azzurro.

Dirgli ciao è stato molto difficile. Ma del resto, altrove, c’erano altri colori ad aspettarci: il bianco degli edifici di Tengue, ad esempio, o il nero, intenso e perfetto, dei vigneti che si spingono verso sud.

E poi, udite udite, da stasera ce n’è uno nuovo: il rosso dei nostri nasi. Un regalo – l’ennesimo – che dobbiamo a quel burlone che si aggira da sempre sull’isola, indisturbato e impunito, e che la gente da queste parti chiama amichevolmente ‘viento canario’.

Lanzarote _ 01

La terra di quest’isola ha il colore della ruggine. Ma non solo.
A nord, ad esempio, la natura regala distese di lava scura e verdi licheni. È un contrasto meraviglioso, che ci ha sorpresi mentre lasciavamo alle nostre spalle l’estremo sud per raggiungere Órzola, il punto più settentrionale di Lanzarote.

La natura da queste parti è la padrona indiscussa e non perde occasione per ricordarlo ai visitatori, con rapidi e drastici cambiamenti d’abito.

Ma anche in questo continuo divenire c’è una costante: i cactus.
Che spuntano in ogni dove. Alti e slanciati verso il cielo, rotondi e ben piantati a terra, ricchi di spine o di fiori, verdi, bianchi… Insomma, ce ne sono per tutti i gusti.

Oltre allo stupore, il loro effetto su di me è quello di spingermi a continue deviazioni, che oltre ad allungare il percorso talvolta fanno perdere di vista la meta. È un po’ la storia della mia vita, sarà per questo che mi viene così bene.

Francesco, al solito, mi segue nel mio vagare. Mi chiedo se a prevalere in lui sia più l’entusiasmo o la rassegnazione. Ma smetto di chiedermelo subito, perché dopo anni e anni di pratica una cosa sento di poterla dire: anche le divagazioni fini a se stesse possono avere grandi pregi. Uno tra tutti, quello di riempire gli occhi e il cuore di assoluta bellezza.

Lanzarote _ 00

Mi sembra impossibile che siano passati 3 anni dall’ultima volta che io e Francesco abbiamo preso un aereo insieme. Eppure è così.

Da allora possiamo dire d’aver visto quasi di tutto: una pandemia, l’arresto imprevisto del lavoro, il distanziamento sociale, l’incertezza nel futuro, lo scoppio di una guerra a due passi da casa, qualche scompiglio personale… Insomma, ci manca solo l’invasione aliena e siamo apposto.

Per fortuna in qualche modo ne siamo venuti fuori. Un po’ come abbiamo fatto io e lui questa mattina sull’Appennino, quando sulla via verso l’aeroporto ci siamo imbattuti in una intensa bufera di neve. Sterzo saldo tra le mani e piede ben calibrato sul pedale.

Così, adesso, dagli 0 gradi di Bologna siamo passati a bere cerveza gelata a maniche corte a Lanzarote.

Va detto che tira un po’ di vento e il cielo non è limpido come immaginavo, ma in fondo bene così.

Al momento, poi, nessun alieno è stato avvistato. Ma visti i precedenti… direi che potrebbero esserci delle possibilità.

il Venerdì _ 01/2023

Tra i buoni propositi per questo nuovo anno ho messo anche quello di riprendere a scrivere con più assiduità. Riprendere ad esempio l’abitudine a raccontare i miei abissi dentistici – e cioè le mie giornate di lavoro, gli incontri, gli episodi più bizzarri… – come mi sono divertita a fare anni fa pubblicando ogni settimana per diversi mesi il Venerdì. Solo che è da tanto tempo che non lo faccio e ripartire è sempre complicato. Ma che dico complicato, complicatissimo.

Ci vogliono argomenti, ci vuole motivazione. Ci vuole un ooooissa di quelli potenti, in grado di rimettermi in piedi. Anzi, alla scrivania. O forse, mi son detta, potrebbe bastarmi un segnale. Qualcosa che arrivi all’improvviso ad attirare la mia attenzione e chiarisca una volta per tutte che tornare a scrivere il Venerdì è la cosa giusta da fare.

Nei primi giorni di questo 2023 mi sono molto interrogata. Mi sono chiesta cioè se ne valesse la pena, perché va bene che la varietà umana con cui ho a che fare ogni giorno al poliambulatorio in cui lavoro è per me una continua fonte d’ispirazione. Ma da lì a metterla nero su bianco, da lì a riuscire a restituirla come vorrei… E poi, visti i precedenti, sarò in grado di mantenere fede a questo impegno?

Accidenti quante volte mi sono posta questa domanda!
Poi, mercoledì, mentre mi dimenavo tra telefoni squillanti, preventivi da spiegare e una sala d’attesa gremita di pazienti, una signora ha suonato il campanello dello studio. Una volta entrata, mi ha sorriso e ha chiesto: “È qui il museo?”.
Io ho sgranato gli occhi, cercando di capire cosa poter rispondere a quella domanda; leggermente bizzarra, se la poni all’interno di un edificio che ospita uffici, qualche azienda e un poliambulatorio. Mentre la mia collega Elsa non ha avuto alcuna esitazione e all’istante s’è lasciata sfuggire un: “Si… il museo dei casi umani”.

La sua voce l’ho sentita solo io. Una manciata di parole perfette. Non avrei saputo fare di meglio. E forse è bene così, che stavolta io sia riuscita a rimanere in silenzio, aspettando che la signora uscisse – non poco delusa per non aver trovato il famigerato museo – per poi scoppiare a ridere.

Quando ho ripreso fiato, ripensando con Elsa a quel brevissimo scambio di battute, ho sgranato di nuovo gli occhi. Stavolta però mi son sentita come davanti a una rivelazione.
E se questo fosse il segnale che stavo aspettando?

Avrei potuto rispondermi in molti modi, ma tra i tanti a mia disposizione ho deciso di scegliere un SI.

Allora tenetevi pronti perché torna il Venerdì.
Ogni mese, una volta al mese.

E ora che il museo ha aperto i battenti, be’, non posso che augurarmene delle belle!

Clicca qui se vuoi scoprire com’è iniziato il Venerdì.

Prossimo appuntamento con “La macchia mediterranea e altri guai”

Quando pochi giorni fa mi hanno chiesto di girare un breve video per presentarmi e annunciare la prossima occasione in cui parleremo de “La macchia mediterranea e altri guai” ho subito pensato, eccoci all’acqua. Poi però, più per gratitudine che per altro, ho accatastato un po’ di libri sulla scrivania in salotto e mi sono improvvisata videomaker. Io, che da sempre malsopporto persino le foto.

Insomma, tutto questo per dirvi che io il video l’ho fatto, l’appuntamento è fissato e gli argomenti certo non mancheranno.
A voi, non resta altro che venire!

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Scrittura e viaggio: è nato dall’unione di queste due passioni il libro di Irene Romano “La macchia mediterranea e altri guai”, in cui si racconta l’avventura di due amiche che intraprendono un viaggio a piedi in Liguria, tra incontri, disavventure e tante scoperte.

Il libro sarà presentato sabato 26 marzo alle 17 alla biblioteca Ficino di Figline a Figline e Incisa ValdarnoValdarno.

📌Info e prenotazioni.

Lisbona

Da un paio di anni a questa parte gennaio è diventato il mese di Lisbona. Una città stretta in un abbraccio di luce, dove tra i vicoli risuona nostalgico il fado e le pasteis de nata ti si sciolgono in bocca.
Lisbona è questo e molto altro. E tra le tante, per me, sarà sempre anche il punto di partenza di un’avventura zaino in spalla che mi ha condotta alla scoperta del mondo e di me stessa.

Se siete curiosi di saperne di più non perdetevi In fuga con me stessa, un libro che raccoglie ‘le gioie e i dolori’ dei miei giorni portoghesi… e non solo. E se per caso l’avete già letto, perché non suggerirlo o regalarlo a una persona speciale?
Lo trovate in LIBRERIA, nei principali store online (Amazon, IBS, laFeltrinelli…) Anche in formato ebook!!
Insomma, i modi per procurarselo tendono all’infinito. Fate voi…


NB: per gli indecisi, ecco qua la recensione di Mappalibro.it