il Venerdì _ 02/2023

Tutto in questo mondo va a periodi: la moda, le tendenze musicali, il modo in cui si portano i capelli… persino le parole che si usano.

Negli ultimi anni, ad esempio, complice la pandemia si son fatte largo nel linguaggio comune le parole resilienza ed empatia.
Due parole di cui, a mio avviso, la maggior parte della gente fino al marzo 2020 nemmeno conosceva l’esistenza, ma dopo quanto accaduto, chissà come, sembra che ognuno abbia subito una trasformazione grazie alla quale ci sentiamo tutti resilienti e soprattutto mooooolto empatici.

Sarà che col lavoro che faccio, per me la resilienza è pane quotidiano da tempi non sospetti. Proprio come l’empatia. Vuoi mettere avere a che fare ogni giorno con decine e decine di pazienti alle prese con orari da far tornare, lamentele, richieste di sconto, consigli (non richiesti) su come fare il mio lavoro da chi nella vita fa tutt’altro… E così, va da sé che quando mi capita di sentire una di queste due parole vengo subito colta da un moto interiore di repulsione.

Per carità, la colpa non è certo la loro, di quel susseguirsi inconsapevole di lettere. Bensì di chi se ne riempie la bocca, privandole nella pratica di tutto il loro prezioso significato.

A tal proposito, il luogo in cui lavoro è un punto d’osservazione perfetto. Grazie al quale, dopo anni e anni di attenta analisi, posso permettermi di dire che pochi di quelli chi si ritengono empatici lo sono veramente.

Pendiamo quanto accaduto l’altro giorno, ad esempio.
È un pomeriggio come tanti quando si presenta in studio un ragazzino accompagnato dal babbo. La visita – della durata programmata di 30 minuti – è volta a controllare l’andamento della terapia ortodontica fissa. E fin qui niente di strano, siamo dal dentista. Se non fosse che il ragazzino in questione si presenta non solo con 2/3 attacchi staccati – il che implica un tempo maggiore per sistemare la cosa -, ma anche con i denti talmente ricoperti di tartaro per la scarsa igiene da costringere la dottoressa a ripulire il tutto per poter intervenire sull’apparecchio.

Il risultato, inevitabile, è stato che l’appuntamento invece di 30 minuti ne è durati 75, con un conseguente ritardo a pioggia sui pazienti successivi.

Cose che capitano, penserà qualcuno, del resto dai medici funziona così. E in effetti è vero. Scoccia dirlo, ma quando si ha a che fare con i medici spesso le cose vanno così. Ma in fondo è anche vero che è una ruota che gira, e se una volta tocca a te aspettare la volta successiva ad aspettare sarà un altro. E avanti all’infinito.

Pensate infatti che l’ultima volta che questo ragazzino era venuto in studio, era toccato a lui aspettare. Ma evidentemente, il babbo, non conoscendo la sopracitata regola della circolarità, allora non aveva perso tempo ad assalire la segreteria con lamentele e pretese di puntualità.

Stavolta, invece, i genitori degli altri si solo avvicinati gentilmente per chiederci cosa stesse accadendo visto tutto quel ritardo.
“La dottoressa ha avuto un imprevisto, ma ha quasi finito”, abbiamo detto. Perché se una cosa l’abbiamo imparata è che la verità, talvolta, da queste parti va tenuta nascosta. Soprattutto se c’è il rischio che in sala d’attesa gli animi si scaldino. Meglio che non si sappia in giro che il ritardo è dovuto a un paziente che si è presentato con la bocca a pezzi senza avvisare, costringendo la dottoressa ad un lavoro di 75 minuti invece di 30. Insomma… meglio per lui che non si sappia.

E infatti anche quel giorno noi non l’abbiamo detto a nessuno. E neanche il babbo, mentre aspettava il figlio in sala d’attesa sempre più gremita di pazienti, ha proferito parola. Se n’è stato zitto, dando l’impressione di aver finalmente capito che certe cose possono capitare. A chiunque, persino a tuo figlio. E se l’altra volta hai atteso, stavolta sei tu che stai facendo attendere gli altri.

Non nego che il silenzio defilato di quell’uomo ha infuso in noi segretarie più d’una speranza. Perché un paziente che prende coscienza della condizione dell’altro o del suo stato d’animo – sia esso un collega, un dottore o un altro paziente – è sempre un gran successo. Ma la nostra speranza ha avuto vita molto breve e infatti si è frantumata nello stesso istante in cui il ragazzino, finita la seduta, è riapparso in sala d’attesa.

Non appena l’ha visto il babbo è balzato in piedi, l’ha preso per la mano e, senza neanche accennare un saluto ai presenti, è uscito di corsa pronunciando un risentito “Mai più e mai poi”.

E noi siamo rimaste lì, senza parole, alla faccia dell’empatia, sai!

il Venerdì _ 01/2023

Tra i buoni propositi per questo nuovo anno ho messo anche quello di riprendere a scrivere con più assiduità. Riprendere ad esempio l’abitudine a raccontare i miei abissi dentistici – e cioè le mie giornate di lavoro, gli incontri, gli episodi più bizzarri… – come mi sono divertita a fare anni fa pubblicando ogni settimana per diversi mesi il Venerdì. Solo che è da tanto tempo che non lo faccio e ripartire è sempre complicato. Ma che dico complicato, complicatissimo.

Ci vogliono argomenti, ci vuole motivazione. Ci vuole un ooooissa di quelli potenti, in grado di rimettermi in piedi. Anzi, alla scrivania. O forse, mi son detta, potrebbe bastarmi un segnale. Qualcosa che arrivi all’improvviso ad attirare la mia attenzione e chiarisca una volta per tutte che tornare a scrivere il Venerdì è la cosa giusta da fare.

Nei primi giorni di questo 2023 mi sono molto interrogata. Mi sono chiesta cioè se ne valesse la pena, perché va bene che la varietà umana con cui ho a che fare ogni giorno al poliambulatorio in cui lavoro è per me una continua fonte d’ispirazione. Ma da lì a metterla nero su bianco, da lì a riuscire a restituirla come vorrei… E poi, visti i precedenti, sarò in grado di mantenere fede a questo impegno?

Accidenti quante volte mi sono posta questa domanda!
Poi, mercoledì, mentre mi dimenavo tra telefoni squillanti, preventivi da spiegare e una sala d’attesa gremita di pazienti, una signora ha suonato il campanello dello studio. Una volta entrata, mi ha sorriso e ha chiesto: “È qui il museo?”.
Io ho sgranato gli occhi, cercando di capire cosa poter rispondere a quella domanda; leggermente bizzarra, se la poni all’interno di un edificio che ospita uffici, qualche azienda e un poliambulatorio. Mentre la mia collega Elsa non ha avuto alcuna esitazione e all’istante s’è lasciata sfuggire un: “Si… il museo dei casi umani”.

La sua voce l’ho sentita solo io. Una manciata di parole perfette. Non avrei saputo fare di meglio. E forse è bene così, che stavolta io sia riuscita a rimanere in silenzio, aspettando che la signora uscisse – non poco delusa per non aver trovato il famigerato museo – per poi scoppiare a ridere.

Quando ho ripreso fiato, ripensando con Elsa a quel brevissimo scambio di battute, ho sgranato di nuovo gli occhi. Stavolta però mi son sentita come davanti a una rivelazione.
E se questo fosse il segnale che stavo aspettando?

Avrei potuto rispondermi in molti modi, ma tra i tanti a mia disposizione ho deciso di scegliere un SI.

Allora tenetevi pronti perché torna il Venerdì.
Ogni mese, una volta al mese.

E ora che il museo ha aperto i battenti, be’, non posso che augurarmene delle belle!

Clicca qui se vuoi scoprire com’è iniziato il Venerdì.

il Venerdì _ bonus track

Questa estate mi sono ripromessa di non scrivere.

O meglio, questa estate mi sono ripromessa di non scrivere niente che riguardi il mio lavoro.

Già mi porta via un sacco di energie durante la settimana, figuriamoci se ho voglia di perderne anche nel weekend!

Così, da un po’ di tempo a questa parte, il venerdì esco dallo studio lasciando dietro di me tutto ciò che ho raccolto nei giorni precedenti: pensieri, pesantezze, arrabbiature… ché non so come, ma negli ultimi tempi la gente butta sugli altri tutto quello che può. A manciate, proprio.

Coloro che se ne stanno dall’altra parte, a raccogliere ciò che viene da quelle manciate, siamo noi: io e i miei colleghi. Per cavarcela dovremmo avere tutti orecchie tappate e spalle tonde, un po’ bruttine a vedersi ma senza dubbio utili a farsi scivolare tutto addosso. A pensarci, sarebbe un gran bel vivere. Invece, oh, i miei mi han fatto proprio all’esatto contrario: orecchie che arrivano ovunque, spalle dritte e come se questo non fosse già abbastanza, hanno pensato di darmi anche una bella lingua lunga. Gioia e dolore di chi mi sta intorno.

In questi mesi la mascherina mi ha salvato la vita un bel po’ di volte – e non solo dal Covid19. Nella mia son rimaste impigliate un sacco di parole, che credetemi è davvero meglio non siano uscite di lì. Per fortuna però ci sono dei pazienti che ti ricordano ancora quanto sia bello poter dire ciò che si pensa con leggerezza e anche un po’ di ironia. Tipo il signor Gianfranco – mastodontico e selvatico – che proprio ieri è venuto in studio.

Appena l’ho visto gli ho puntato il termometro alla fronte – allungandomi sulle punte dei piedi. Lui m’ha guardato con un risolino: “Va’ia va’, te e i Covidde! – poi però s’è fatto serio – Scusa, eh, ma quanto costa codesto coso per la febbre?”

“Mi sembra sui 150€”.

“Ah! – fa due passi verso la sala d’attesa, poi torna a voltarsi – ma che funziona anche con i cani?”.

Questa ci mancava, penso. “Non saprei. Ancora non sono passati cani di qua – mi fermo un attimo – … be’, per lo meno non con quattro zampe”.

Sento la Mau dietro di me che ride. Lo stesso fa lui ed aggiunge: “Ah, bene!”. Così finisce che ridiamo tutti.

Capita spesso ultimamente, di ridere. Penserete, che fortuna! Ma il più delle volte, credetemi, lo si fa per non piangere.

Sarà per questo che le cose son cambiate. E così, adesso, quando il venerdì esco da lavoro, chiudo la porta alle mie spalle e lascio tutto lì – gioie e dolori – pronta a godermi questa estate appiccicosa e le cose belle della mia vita.

il Venerdì _ 53

Se solo la gente si rendesse conto cosa significa di questi tempi avere a che fare con la gente, saremmo già un bel pezzo avanti.
Con questo non intendo certo dire che sarebbe tutto facile. No. Non oserei mai azzardare tanto. Ma son certa che un po’ di consapevolezza in più aiuterebbe, soprattutto di questi tempi, in cui lo sport nazionale sembra esser diventato il lancio dei propri problemi e delle proprie pesantezze sugli altri. Effetto forse del prolungato stop del calcio, chissà…

Be’, per fortuna tra un po’ ripartirà anche quello, così torneremo a sfogare gli animi come facevamo un tempo, da allenatori da divano, senza il bisogno di mostrarsi per forza tuttologi in tutto, mettendo bocca nel lavoro degli altri come fosse il nostro, quando noi quel lavoro lì non l’abbiamo manco mai fatto.

Questo è quello che mi capita più spesso ultimamente, ovvero che la gente mi dica come devo fare ciò che ormai faccio da dodici anni. Ebbene si, non uno o due, ma ben dodici. E ok che nella vita non si finisce mai d’imparare, ma per lo meno concedetemi la libertà di voler imparare da chi dico io, e non da chi vuol dettare regole e tempi solo perché oggi va di fretta o chissà cosa.

Io e le mie colleghe non facciamo altro che risolvere problemi da mattina a sera, e mi sembra di poter dire che siamo piuttosto brave a farlo, visto che ce ne pongono di nuovi ogni giorno. Il che, va detto, regala a tutte noi grandi soddisfazioni, assieme però ad un bel carico di fatiche, ché credetemi, esser sempre sul pezzo richiede energie. E se poi ci si mettono pure gli altri ad aumentare il livello di difficoltà, va a finire che lavorare a volte diventa una vera e propria impresa, roba che a fine giornata ti trascini verso il divano confidando in una dilatazione temporale che ti conceda ore sufficienti a recuperare le energie che anche oggi hai speso sul campo.

Di queste fatiche ne porto i segni addosso. E così, anche se ormai il massimo dello sport che faccio è guardare i canestri di Jordan, Pippen e Rodman su Netflix, senza accorgermene mi son ritrovata ad andare contro corrente, perdendo chili mentre tutti ne accumulavano.

Non c’è paziente che non mi chieda come abbia fatto, in questi tempi di quarantena e farina 00. E quando me lo chiedono temporeggio un po’, quasi indispettita, poi dico, be’, passate un paio d’ore da queste parti – tra telefoni che squillano, pazienti che vanno di fretta, protocolli che cambiano di ora in ora… – e vedrete che tornare in forma è un attimo.

Nonostante i chili persi e la fatica, però, mi reggo ancora in piedi, ché per fortuna il mondo è bello perché vario, così come le persone. E devo dire che in tema di persone questa fase 2 mi ha regalato grandi sorprese, mostrandomi il lato più umano di persone da cui, lo ammetto, non mi sarei mai aspettata tanta comprensione e vicinanza.

Tra queste, di sicuro, non c’è la signora Carla. E non perché non sia comprensiva ed umana, bensì perché il fatto che lo fosse mi era ben chiaro anche prima di questa storia che ha complicato l’esistenza un po’ a tutti. Persino a lei, che nonostante la sua età trova il tempo di preoccuparsi per me, tanto che l’altro giorno mi ha cucito una mascherina con le sue mani e me l’ha portata fino in studio: Ché va bene prendersi cura degli altri – m’ha detto – ma bisogna che tu ti prenda cura anche di te, Cocca!

Quando penso a che senso abbia trascorrere le giornate in balia degli altri, talvolta vacillo un po’, ma poi mi tornano in mente persone così, che il mondo te lo fanno vedere a colori, e penso, fanculo a chi fa di tutto per rendere la vita del prossimo un inferno, ché nonostante tutto ci sarà sempre qualcuno per cui vale la pena tenere duro e la Carla è di sicuro una di queste, e poi, oh, detto tra noi, ma dove la ritrovo io una che alla mia età mi chiama ancora Cocca?

Illustrated ladies by Caitlynmurphy

il Venerdì _ 52

Prima di adesso non mi ero mai accorta di quanto fosse faticoso il lunedì. Invece, ultimamente vivo questo giorno con un certo terrore, ché dopo settimane di quasi inattività può accadere che si perda l’attitudine alle ripartenze, anche a quelle di un banale lunedì.

A dire il vero, però, io ce la metto sempre tutta per partire col piede giusto: un caffè tendente all’infinito, buona musica lungo il viaggio e pensieri felici, ma ahimè, ogni volta c’è chi butta all’aria i miei piani. Al punto che, spinta dalla deriva complottista di questo periodo, temo d’esserlo diventata un po’ anch’io, complottista, quando mi ritrovo a pensare che certa gente – in genere la più bizzarra in circolazione – si diverta a darsi appuntamento da noi, tutta insieme appassionatamente, proprio di lunedì, per far sì che le nostre settimane inizino ogni volta con una salita. E mica una a caso, eh, ma una di quelle belle impegnative, che segano le gambe e il fiato sin dai primi passi e ti fan dire, ma chi diavolo me l’ha fatto fare?!

Dalla paziente che si lamenta a gran voce indignata per il fatto che un’emergenza dal dentista abbia un costo (…40€), ai genitori separati che non si possono vedere e a noi tocca far da mediatori per le cure della figlia, passando per quelli che vivono gli appuntamenti come se fossero gite in famiglia e si buttano in studio tutti insieme, alla faccia degli altri presenti e del distanziamento sociale. E infine, come non citare lui, il complottista vero, che ti guarda di sotto in su con l’aria di chi ha capito tutto della vita e dice: tutta ‘sta faccenda è solo un’invenzione, lo sai?

Ah, be’, l’unica cosa certa è che da queste parti la noia non si sa bene cosa sia, anche se, è sempre più evidente che per lavorare in un posto come questo, altro che segretaria, devi saper essere un po’ tutto: avvocato divorzista, psicologa, vigile urbano, virologa… Come se di questi tempi la vita non fosse già abbastanza complicata di suo, con i continui cambi di rotta, le direttive che ti fanno organizzare il lavoro dalla A alla Z e un attimo dopo, via tutto, per ripartire, si, ma stavolta dalla Z alla A.

Oh, in questo giorni il Paese ha fatto solo qualche timido tentativo di ritorno alla normalità, ma da quel che ho visto e sentito, ho come l’impressione che avremmo già bisogno di una nuova sosta. Qualcosa capace di darci respiro, però, e non nuovo stress. Qualcosa come la signora Alma, ad esempio, che sebbene fosse lunedì, è venuta in studio senza polemiche né problemi. Ha risolto la sua urgenza e poi, prima di salutare tutti e andar via, ha detto sorridente e svagata alla Robi: Senta… Che me la fa una cortesia? Che la posso prendere una buttatina di quella pianta lì. Come la mi garba, guardi, l’ha unn’ha idea!
Avoglia! ha risposto la Robi. Uno zac e via, contenta come una Pasqua.

Per puro caso, adesso quella pianta se ne sta nel mio salotto e vien giù verde e vivace dalla libreria. Ogni volta che la vedo penso a quella donna, felice e leggera, che con un sorriso ed una semplice frase m’ha fatto pensare che forse là fuori non son tutti pronti a buttare sul prossimo le fatiche e le frustrazioni di questo periodo, che per quanto in alcuni casi possa esserci andato piano, diciamocelo, i coglioni li ha fatti girare un po’ a tutti. Ma forse là fuori c’è davvero ancora un briciolo di speranza.

E così, d’un tratto la vita sembra essere tornata la cosa meravigliosa che era un tempo, soprattutto adesso che la settimana volge al termine ed io la saluto dal mio salotto, con un po’ di rosso in corpo e Ray Charles nelle orecchie.

il Venerdì _ 51

Di quello che è il mio lavoro e di ciò che mi capita di vedere e sentire quando sono all’opera, ne parlo quasi ogni venerdì da ormai più di un anno.

Ma questo è un venerdì particolare, che mi piace pensare non sia un caso che quest’anno abbia scelto di coincidere proprio con il Primo Maggio, festa dei lavoratori.

Dev’essere per questo che il mio cervello ha deciso di prendersi una pausa, oggi, mettendo così a tacere tutti i pensieri che ultimamente mi si assembrano in testa e ai quali, son sempre più convinta, dovremmo estendere le regole del distanziamento. Dar loro voce uno alla volta, ad esempio, ed imporre un senso unico di circolazione, indicando una via d’uscita diversa da quella di entrata, così da evitare sovrapposizioni.

Ma se far rispettare certe regole alle persone è stata – ed è tuttora – un’impresa, figuriamoci come sarebbe far lo stesso con i pensieri, che per natura tendono ad accavallarsi gli uni sugli altri, proprio come in mezzo al pogo di un concerto punk.

Ecco, ormai quando sono a lavoro nella mia testa è un continuo pogo, dove però a saltar l’uno su l’altro non sono i corpi accaldati e appiccicosi di ragazze e ragazzi con una birra in mano, ma attenti e meticolosi passaggi di sanificazione.

Ahhh… I tempi son proprio cambiati. E così, le cose che fino a due mesi fa facevamo quasi senza accorgercene, oggi le abbiam scomposte a tal punto da conoscerle fin nei minimi dettagli e il tutto non certo per curiosità, ma per sanificare, sanificare e sanificare!

Metti i guanti, togli i guanti.
Metti la pellicola, togli la pellicola.
Il gel! Accidenti, ha passato un po’ di gel sulle mani? Gliel’avevo già detto? Si, gliel’avevo detto… Oppure no?
Vabbè, e le scarpe? Se l’è ben pulite le suole all’ingresso?
Ahh!! Senza mascherina qua non si entra!!


Etc etc

Insomma, lavorare con tutte ‘ste voci in testa è una gran fatica, ma se oggi son qui a parlarne non è certo per lamentarmi. Tutt’altro. Le fatiche e le difficoltà che questa sfida han sottoposto a tutti noi, infatti, son riuscite a darmi l’ennesima dimostrazione di quanto fortunata sia a poter dire di avere un lavoro e soprattutto, visto come stanno andando le cose in generale, di averlo ancora.

Certo qui non si tratta solo di fortuna, ma anche di unità e d’impegno, quello che ognuno di noi ha dimostrato per far sì di restare a galla e non venir risucchiati dall’onda violenta che si è riversata sull’intero Paese.

Non è facile, certo, e non sarà neanche breve, ma almeno per oggi metto a tacere i pensieri e lascio libertà di parola solo alla gratitudine, quella che provo verso le colleghe ed i colleghi che in questi giorni, si son fatti un mazzo, oh, ma un mazzo… che credetemi, metà basterebbe.

Questo venerdì, quindi, non può che essere per voi, per il vostro impegno, per le alzate di testa ma anche per i sorrisi e le boccate d’aria fuori dalla mascherina; per il sole che mi sembra la cosa più bella del mondo quando finalmente mi sbatte in faccia a fine turno mentre faccio due chiacchiere con la Sarina.

E infine, per il lavoro, che vuoi o non vuoi, oh, da queste parti si dimostra sempre capace di dar ben più d’uno stipendio.

Il quarto stato

il Venerdì _ 50

Nella vita non si sa mai quel che ci tocca. Ci son settimane che filano via con una facilità da non credere e poi, be’, ce ne sono altre, tipo questa, che è iniziata con una sonora pedata nel culo, SBAM, giunta improvvisa a scuotermi dal torpore della quarantena. E in un attimo, ben tornata alla realtà.

Be’, ben tornata si fa per dire. Se c’era una cosa, infatti, che temevo sin dall’inizio era proprio questa: il tornare alla realtà scoprendo che da tutto ‘sto casino non abbiamo imparato un bel niente, ritrovando ahimè ognuno solo più uguale al se stesso di prima.

Niente occhi nuovi o nuovi cuori… Per quel che ho visto in questi giorni, infatti, i buoni son solo diventati più buoni, così come gli altruisti, gli ottimisti e i gentili. Il che non sarebbe poi male, se non fosse che lo stesso vale anche per i furbi, gli arroganti, per quelli che avrebbero di sicuro saputo far meglio ma al solito, oh, han fatto fare tutto a te per poi puntare il dito. Già… vale anche per loro, per quei tipi polemici, che polemici erano e polemici rimangono, solo che adesso – dopo esser stati repressi per giorni e giorni – han raggiunto un livello superiore, diventando così dei veri Super Saiyan della polemica.

Io non so come, ma ogni volta che ho a che fare con persone così il mio cervello se ne esce con un Bona, ci sì! e da forfait.
Il che, detto tra noi, non è proprio il massimo visto che mi occupo di pagamenti. Per fortuna, però, in studio l’hanno capito che questo rischio, noi della segreteria, non lo possiamo proprio correre, allora, per proteggerci – non solo da simili minacce, visti i tempi che corrono – da qualche giorno ci han messe tutte sotto vetro. O meglio… sotto plexiglass, e adesso passiamo le giornate in una dimensione altra, che per quanto sia diversa dall’isolamento della quarantena, ci permette comunque di osservare ed ascoltare il mondo a debita distanza.

A dire il vero, là dentro, qualcosa dall’esterno arriva eccome. Il telefono, ad esempio, ma fino ad ora ha portato solo cose buone.

Mi viene in mente la signora Anna, che l’altro giorno ha chiamato per spostare il suo appuntamento.
“Icchė le dico, signorina? – ha esordito – e c’ho 83 anni, son du’mesi so’ chiusa in casa. Per fortuna che ‘i pizzicagnolo l’ho proprio davanti… figurassi, l’è lui a chiamammi la mattina per chiedere d’icché ho bisogno”.

E senza darmi modo di poter intervenire, ha preso a raccontarmi le sue giornate, passate un po’ come tutti tra cucina e salotto, solo che lei di anni ne ha 83, ha ribadito, per poi sorridere imbarazzata: “Du’mesi sola in casa, mammini… e’mi so’ ritrovata anche a parlare con la televisione, guardi!”.

Così ho sorriso anch’io, ché di questi tempi i motivi per sorridere non son mai abbastanza. “E che sarà mai!”, le ho detto.
“Mah… – ha ripreso – se lo dice lei che l’è giovane, la mi tira su. Eppure oh, finché Dio mi tiene su questa Terra, che le devo dire? Io ci sto, e se questo vol dire ritrovammi a parlare con la televisione, vorrà dire che parlerò con la televisione”.

Non fa una piega, mi son detta mentre l’ascoltavo tirare in ballo Dio ed i piani che aveva in serbo per lei. Giorni di solitudine, magari qualche attimo di tristezza o smarrimento, ma anche gratitudine, si, verso il pizzicagnolo che l’aiuta ogni giorno e anche verso di me, che son stata ad ascoltarla parlare e ridere di gusto. Che spasso di donna!

E così, mentre ridevo insieme a lei, d’un tratto mi son sentita felice e al sicuro, tanto da spazzar via i malumori di poco prima e rendermi conto che non per tutti l’esser rimasti uguale a se stessi è un male. Prendiamo la vita, ad esempio, capace ancora di regalare dopo ogni pedata nel culo un buon motivo per risollevarsi.

Per questo, alla faccia di chi vorrebbe spegnere cervelli ed entusiasmo, le ringrazio entrambe, la vita e la signora Anna, per esser venute in mio soccorso a ricordarmi che là fuori – al di là delle nostre case o di questo strano acquario nel quale mi trovo adesso – ci sono ancora un sacco di cose belle. Cose capaci di far sorridere, sognare, di darci ossigeno quando ne abbiam più bisogno e per le quali vale senz’altro la pena di resistere. Sempre.

Lisandro Rota

il Venerdì _ 49

Se fino a un paio di mesi fa metà del tempo che impiegavo nel lavoro lo passavo al telefono, adesso credo proprio d’aver raggiunto un buon 80%. Una percentuale che porta di diritto il telefono ai primi posti nella classifica delle cose per me indispensabili. Qualcosa al pari di una mano, ad esempio, o ancor meglio di un piede, senza il quale, oh, anche a volere non potrei fare manco un passo.

Così, dato che da queste parti non ci siamo mai fatti mancare nulla, mi sembra giusto non essere da meno in quanto a telefoni. In un momento come questo, poi… Allora via: fisso, cordless, cellulare… chi più ne ha più ne metta. Ed io lì, dietro all’uno e all’altro, a dare info, a rispondere alle emergenze e a far chiamate su chiamate per spostare le decine di appuntamenti che avevamo in agenda, ma che vista la situazione, ahimè, tocca rimandare a chissà quando.

Veder svanire sotto i propri occhi il lavoro messo insieme con tanta fatica e dedizione, è una cosa che strazia il cuore e spacca un po’ lo stomaco, ma l’emergenza non ci permette di fare altrimenti. E così, si fa, punto e basta, sperando che arrivi presto il momento in cui finalmente leggeremo un bel #celabbiamofatta e via, si riparte.

Nel frattempo mi accontenterò del telefono, che in questi tempi di distanziamento sociale, oh, è un’opportunità non da poco, visto che ti permette al contempo di rispettare le distanze e di entrare in contatto con un sacco di persone; ognuna delle quali, a suo modo, ti trasmette qualcosa. C’è ad esempio chi si preoccupa per noi, come il signor Leonardo, che ci tiene a sapere che stiamo tutti bene. Poi c’è chi ci incita a tener duro e nella cornetta lascia andare un convinto Forza, eh!
E infine c’è lui, un perfetto sconosciuto chi tira su il telefono e risponde: Oh allora!! – gridando nella cornetta – O’icchè si fa…? E sorride.
Così, eh, tutto d’un botto, senza né buongiorno né buonasera.

La cosa più bella però non è stata la sua voce spipata o il suo sorriso buttato lì un po’ a caso, ma il fatto che il suo modo di fare mi sia parso assolutamente normale. Ma del resto, di quello che fino a qualche settimana fa definivamo ‘normale’, ad oggi rimane poco o niente e così, se un paio di mesi fa una domandina su uno che risponde al telefono in questo modo me la sarei fatta eccome, be’, oggi rispondo chiedendomi lo stesso: O’icché si fa?

Ahhh… Le cose son cambiate, si.
Anch’io adesso a lavoro indosso guanti, mascherina e visiera. Questo m’ha posto ad una certa distanza da tutto e da tutti, in un luogo altro, distante, tanto che alla fine, oh, son finita per cambiare anche io!
Così, ho finalmente imparato a contare fino a dieci prima di buttar lì la mia opinione. E senza saltare neanche un numero, eh.
Un gioco da ragazzi… direte voi, ma non per una dalla risposta pronta come me. Voi non potete capire, questi son passi da gigante. Roba che può apprezzare davvero solo chi mi conosce davvero, come la Clau – collega e amica preziosa – che ieri mi ha addirittura scritto per farmi complimenti.
Perché quando si è amiche, be’, i piccoli successi dell’altra sono un po’ anche i tuoi.

E così, oggi mi godo questo passo in avanti, che per quanto semplice sia, spero riuscirò a portarlo con me nella Fase 2 e anche in quella successiva, ché ci son voluti quasi 34 anni ed una pandemia, ma alla fine, oh, ce l’abbiamo fatta.

È proprio vero, cari miei, in questa vita c’è speranza per tutti.

il Venerdì _ 48

Un tempo amavo il venerdì perché preannunciava il weekend. Oggi continuo ad amarlo, anche se per un motivo del tutto diverso. Salvo imprevisti, infatti, il venerdì è il giorno in cui tocca a me andare a lavoro. Il che ultimamente rappresenta una ragione più che valida per lasciarsi andare all’entusiasmo, ché finalmente si esce. Evvai!

È andata così anche stamani, quando alle 7.40 mi son lanciata fuori di casa. Va detto che a guidare i miei passi a quell’ora più che l’entusiasmo era l’inerzia, ma questo non ha certo impedito al mio sguardo di notare due/tre persone davanti all’ingresso della Coop, ferme in attesa che qualcuno giungesse a dar loro il via. E poi, vai di spesa!

I miei occhi son così disabituati agli esseri umani, che non appena ne vedono uno vanno in brodo di giuggiole. Solo che poi, man mano che camminavo in cerca della mia auto, mi sono accorta che le persone in fila non erano due/tre, ma moooolte di più. Un serpentone stretto e lungo che sembrava non finire mai, e che ha trasformato la curiosità di poco prima in un tale fastidio che, oh, se non fosse stato il dovere a chiamarmi me ne sarei tornata dritta dritta a casa tra le mie quattro mura a fare la muffa.

Lo so, non dovrei dire così; ognuno ha le sue ragioni per far ciò che fa ed io forse dovrei essere più comprensiva, chiudere un occhio – o magari tutti e due – ché a Natale, si sa, siamo tutti un po’ più buoni. Appunto… a Natale, mica a Pasqua.

Con la Pasqua non so esattamente come funzioni, ma so per certo che abbiamo un problema. Houston!! Abbiamo un bel problema di analfabetismo funzionale, dato che non riusciamo a comprendere neanche un semplice e chiaro #stateacasa.

Per carità, lungi da me avercela con chi se ne stava in fila stamani, ma sembra addirittura che nei prossimi giorni qualcuno abbia in programma di fare le classiche rimpatriate – più o meno in sordina – alla faccia di tutto e tutti.

Credetemi, qui non c’entra l’esser buoni o cattivi; si tratta piuttosto di saper ascoltare, come ha fatto l’altro giorno Francesco, quando è andato a comprare la frutta sotto casa e ha sentito due persone del quartiere parlare. “A Pasqua che fate? – ha chiesto un signore ad una signora come se nulla fosse – vi ritrovate e state tutti insieme?”. La signora con le buste piene di roba ha detto: “Si, eh!” e ha sorriso un po’ di nascosto.

Be’, per lo meno ha avuto il garbo d’abbassare un po’ la voce, mica come quelli che si fanno centinaia e centinaia di chilometri – in culo ai divieti – per raggiungere le seconde case e passar questi bei giorni sui loro balconi in riva al mare.

Poi, di contro c’è chi il rischio non lo corre col pranzo di Pasqua o la scampagnata a Pasquetta, ma con l’impegno quotidiano, che va avanti ormai da un mese. Son quelle persone che han chiuso ditte e negozi, che chissà se ce la faranno a riaprire e a garantire ancora posti di lavoro ai dipendenti. Oppure son quelle persone che stanno così attente a non sgarrare, che anche se hanno mal di denti da giorni, son disposti a tenerselo pur di non incorrere in un controllo e rischiare d’essere sanzionato.

Ne ho sentite diverse, oggi, di persone così ed è stato un piacere poter offrire loro un servizio e rassicurarli, ché in caso di controllo, ho detto a ognuno di loro, chiamate pure lo studio. Garantiamo noi, ci mancherebbe!

I loro sorrisi, grati e sollevati – per il dolore alleviato o per un gesto che finalmente ha riportato nelle loro vite un po’ di ‘vicinanza’ – son stati una carezza al cuore, non solo per me, ma anche per Ilaria e Sandrina con cui oggi ho lavorato.

Di questi tempi, lavorare – seppur a ritmi drasticamente ridotti – è davvero una fortuna, ma cedetemi se vi dico che è anche un’enorme fatica, soprattutto in ambito sanitario. Ma in fondo, be’, ci siamo abituati: alla fatica e anche alla varietà dell’essere umano, ché chissà perché da queste parti non ci siam mai fatti mancare nulla.

Smetto quindi d’illudermi che da questa emergenza ne usciremo migliori. Ognuno ne uscirà come più gli si addice: chi più furbo, chi più responsabile, chi più forte o generoso… e poi, be’, ci sarà anche chi ne uscirà più stronzo.

Per quanto riguarda la mia, di uscita, ci sto ancora lavorando su. Non so bene come sarò una volta fuori e cosa questa emergenza m’insegnerá. Ma come sempre son sicura che si debba procedere a piccoli passi, così, intanto ne ho approfittato per imparare finalmente ad aprire il vino con questo.
Ché per quanto questi giorni siano un po’ tutti uguali, oggi è pur sempre venerdì.
Allora buon weekend, buona Pasqua e buon tutto.
CIN!

il Venerdì _ 47

Oggi sono uscita, che bello!
E anche se la porta di casa si è aperta solo per andare a lavoro, be’, bello lo stesso!
Non avrei mai pensato che un giorno andare a lavoro avrebbe rappresentato l’unica occasione per prendere una boccata d’aria, rivedere prati verdi e svagarsi un po’. Invece… com’è che si dice? Nella vita mai dire mai.

Sebbene in molti si credano supereroi – intoccabili e in nessun modo vulnerabili davanti alle sfide che questa emergenza ci propina – sono certa che si stupiranno nello scoprire quanto la fatica e la pesantezza di questi giorni non facciano sconti a nessuno. Manco a loro, supereroi o presunti tali. Prima o poi, infatti, un piccolo cedimento arriva per tutti, ché per quanto siano luminose e ben agghindate le vostre case, oh, quatto mura son pur sempre quattro mura.

Io, ad esempio, in questi giorni ho iniziato a far strani sogni. Sogni a cui sebbene debba riconoscere una certa creatività, son così impegnativi da togliermi il sonno e da darmi la certezza che si, la vita normale inizia davvero a mancarmi.

Mi mancano le cene dai miei, le voci per strada, le lunghe camminate. Mi mancano addirittura le cose fastidiose, come la sabbia nel costume, la gente che salta la fila ed ora che son qui in autostrada, di ritorno verso casa, sarei capace di tirar dritto per spararmi un panino mal scaldato e un po’ stantio in un autogrill in culo al mondo al modico costo di 7,50€. Cose che un tempo avrei di sicuro mal sopportato, ma che adesso mi fan pensare ad una sola cosa: libertà.

Ah, quanto mi manca tutto questo…
Ma tranquilli, non farò alcun tuffo in mare né mangerò panini – per lo meno non in autogrill. Esco alla mia uscita e filo dritta a casa.

Già, perché se c’è una cosa che in questo delicato momento il mio lavoro riesce a garantirmi – per quanto vada a rilento – è un prezioso e sempre attento sguardo sul mondo della salute.
Chiariamoci, noi non siamo né in un pronto soccorso né in una terapia intensiva – il merito dell’essere in prima linea lo lasciamo ad altri: medici, infermieri, volontari… – ma le informazioni ci arrivano eccome; ci arrivano da amici e colleghi, persone autorevoli, che in prima linea ci son davvero e che non fanno altro che ripetere che non possiamo in alcun modo permetterci di abbassare la guardia, neanche adesso che l’aria profuma di primavera e in cielo splende un bellissimo sole.

Quindi filo dritta a casa e dopo cinque ore di lavoro – che chissà come son sembrate esser molte ma molte di più – magari mi sparo un panino, comodamente seduta sul divano e con vista Settignano, come sempre da un mese a questa parte.

Lo faccio per me, certo, ma anche per coloro a cui voglio bene e anche per quelli che questa mattina, a lavoro, m’è capitato di sentire e che senza accorgersene, oh, son stati capaci d’infondermi una tale fiducia nell’altro che mi son detta, qua bisogna tenere duro, bisogna continuare ad impegnarci, nonostante la voglia di fuggire ed il sonno che inizia a mancare.

Non avrebbero potuto farmi un regalo più bello: fiducia, finalmente, e un po’ di misura – roba davvero rara per questi tempi in cui chissà perché in giro sembrano tutti medici, politici, economisti… Invece, oh, con un po’ di gentilezza, Gino e la signora Alma stamani son riusciti a darmi una bella scaldata al cuore. Il primo chiamando in studio per sapere come stavamo, tutti, e per chiedere “Com’è che posso fare per versare il mio acconto? Avevamo concordato che avrei pagato la mia quota a fine marzo, ma col fatto che non posso uscire di casa…”. La seconda, ripetendo a gran voce nella cornetta “Forza, eh! Coraggio!”.

Una roba che me li ha fatti sentire così vicini, così partecipi, che d’un tratto mi son ritrovata come stretta in un abbraccio, di quelli che ti bloccano le spalle e tu non puoi fare altro che sorridere.

Per gli abbracci, intendo quelli veri, ahimè, dovremo aspettare ancora un po’. Bisogna essere attentissimi, mi ha detto oggi Daniela – e se lo dice lei che è un medico non posso fare altro che darle retta – ma positivi. E l’ha ripetuto un paio di volte: attentissimi, ma positivi, ché l’esser positivi, si sa, aumenta le nostre difese.

Allora avanti, attentissimi ma positivi. Fosse mai che da tutto ‘sto casino non se ne esca anche migliori. L’ultima volta che m’è capitato di pensarlo ho visto orde d’italiani saltar giù dal letto in piena notte per spostarsi da nord a sud, alla faccia del buon senso e dei divieti, allora mi son ripromessa di mettere a tacere tali speranze. Ora che son qui, però, seduta a gambe incrociate sul mio divano, le parole della Dani mi risuonano in mente come un mantra: attentissimi ma positivi, attentissimi ma positivi, attent… Oh, non se ne vogliono andare via più, tanto che mi viene da pensare, chissà che alla fine non se ne esca davvero migliori.
Del resto, com’è che si dice?
Nella vita mai dire mai.

Attentissimi ma positivi, attentissimi ma positivi, attentissimi ma positivi…… Om…..