L’indiano

La sirena risuonò nella notte, scuotendo le pareti di cemento armato.
Senza nemmeno alzare lo sguardo gli operai mollarono gli strumenti. Fu un tonfo d’oggetti metallici, una sinfonia. Anche Pado Gonzalo vi prese parte. Nonostante non avesse ancora raggiunto i quaranta d’età, erano anni che lo faceva, così tanti da poter quasi ambire al ruolo di direttore d’orchestra, là dentro.
I musicisti in tuta blu raggiunsero l’uscita, una fila indiana di gambe strascicate e facce smunte. Timbratura del cartellino e via al coro dei saluti: A domani. Buonanotte. Bona merde! Qualcuno si fa un goccetto? Ma quale goccetto, vai a letto bischero!

Pado si appoggiò al cancello e tirò fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca del bomber, osservando i colleghi allontanarsi di ritorno alle loro vite. – Hai da accendere? -, chiese Mattia. Un sì con la testa e poi finalmente una boccata d’ossigeno dopo la lunga notte in fabbrica.
– Com’è andata? -,domandò Mattia a mezza bocca tenendo salda con l’altra metà la sigaretta.
– Al solito, regolare. -Le parole di Pado non dicevano niente, ma era un niente che Mattia comprendeva alla perfezione, fatto di gesti ripetitivi, di grasso cheti s’incrosta alle mani e di un bonifico a fine mese. Un niente che per loro valeva un sacco.

Mattia dette un occhio al cellulare: – Cazzo, devo darmi una mossa. – Un ultimo energico tiro e gettò a terra la sigaretta.
– Aspetti visite? –
– Si. –
– La solita? –
– Si. –
– Sbaglio o la cosa si sta facendo seria? –
– Se una scopata ogni tanto si può definire una cosa seria… –
Pado sorrise: – Credimi, c’è più serietà in certe scopate che in tanti discorsi di mia moglie. – Mattia gli dette una pacca sulla spalla: – Buonanotte amico mio. –
Pado restò solo. La quiete della notte era rotta dal rumore della fabbrica alle sue spalle, che grazie al continuo avvicendarsi di nuove braccia non cessava mai la sua attività. Con qualche passo s’allontanò dal cancello e da quel rumore, che ormai confondeva con quello del cuore che gli batteva in petto.

C’era stato un tempo in cui aveva sognato d’aprire un ristorante messicano. Un piccolo pezzo della sua terra d’origine in quella d’adozione. Che gran figata, si era detto. E invece la vita gli si era messa di traverso. Con la morte del padre infatti, da ventenne ribelle quale era si era dovuto fare uomo. “A volte, caro ragazzo, è la vita a scegliere per noi”, aveva detto il capo officina davanti a quel giovane dalla mano tremante. Pado l’aveva guardato negli occhi, scorgendovi sua madre e i suoi fratelli, così aveva stretto la penna tra le dita e con una firma aveva appeso al chiodo il suo bel sogno.
Cazzo, erano passati quasi vent’anni da allora. Tanti. Troppi? Di sicuro abbastanza da non riuscir più a distinguere il suo odore da quello di un sogno marcito.
Si chiese, perché tornare a casa? Se avesse avuto una bella ragazza ad aspettarlo come Mattia, certo le cose sarebbero state diverse; ma il suo letto era già occupato da sua moglie Rosa. Decisamente meglio starne alla larga.
Che tipa strana, aveva pensato il giorno in cui si erano conosciuti. Avrebbe fatto bene a darsi ascolto, ma Pado non se ne dava mai abbastanza, così aveva finito per innamorarsene e sposarla. Un piccolo pezzo di donna con la paura del buio, tenera. Solo che quella paura le era un po’sfuggita di mano, tanto d’aver bisogno di compagnia nelle lunghe notti in cui il marito si assentava per lavoro.
Lui non si era accorto di niente. O aveva fatto l’indiano? Fatto sta che alla fine Rosa gli aveva pure chiesto il divorzio. E così, in attesa che lei trovasse una nuova sistemazione, a Pado non restava che il divano.
Se la vita a cui tornare era quella, beh, tanto valeva restarsene là fuori.

Camminò per qualche minuto, fino a un incrocio. La via a destra l’avrebbe condotto a casa, quindi svoltò a sinistra. Fece lo stesso altre due volte. La notte era la migliore amica che potesse avere, perché abbandonarla?
Al suo fianco il fiume scorreva lento. Si sedette nel buio ad osservarlo, sotto una luna pallida. Poco distante un’auto dai finestrini appannati sballottava. Finalmente un po’ d’amore. Poi, nel buio, dei passi. Pado non era certo un tipo impressionabile, ma si guardò intorno portando una mano al tagliaunghie nella tasca dei pantaloni. Un uomo comparve alle sue spalle. Un corpo minuto stretto in un elegante completo scuro e un sacchetto di plastica in mano.
-Posso? -, chiese facendo cenno di sedersi sulla panchina.
Pado si fece più in là e lui poté accomodarsi.
Si sarebbe aspettato qualche parola, ma seguì solo del silenzio. Allora Pado si voltò verso quel tipo dai lineamenti orientali e lo sguardo fisso sul fiume: -Tutto ok? –
L’uomo fece cenno di sì con la testa e tirò fuori dal sacchetto una birra:- Vuoi un goccio? –
-Volentieri, – buttò giù un sorso amaro e chiese – dì un po’,vieni qui spesso? –
-Tutte le sere. –
-E cosa fai? –
-Aspetto. –
-Devi aspettare qualcosa di molto importante se vieni qui ogni sera. –
Seguirono altro silenzio, altri sorsi di birra. La bottiglia passava di mano in mano. Pado dette un occhio, vide che era a fine. – Tranquillo, –disse l’uomo, – ne ho altre due. –
I fari dell’auto alle loro spalle li illuminarono. Fu un attimo, il motore s’accese e l’auto sfrecciò via in un gran frastuono.
-Sai che si dice dalle mie parti? – esordì l’uomo. – Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico. –
Pado si voltò verso di lui, deglutì preoccupato e buttò fuori la prima cazzata che gli passò per la testa: – Da dove vieni? –
– Dàlián, Cina –silenzio – E tu, dì un po’, sei uno di quei mezzi indiani d’America? –
Questa storia dell’indiano lo perseguitava da quando era un ragazzo. I suoi occhi in effetti erano un po’ allungati e gli zigomi sporgenti ricordavano quelli di un pellerossa, ma con gli indiani Pado non aveva mai avuto niente a che fare, se non per lo scalpo che gli aveva fatto la vita. La sua terra d’origine era il Messico, da lì proveniva il suo sangue, ma lui non era tipo da dar troppe spiegazioni. Che lo credessero pure un indiano.
Anche quella sera, in riva al fiume, non disse né sì né no. Si voltò e prese ad osservare lo scorrere incessante dell’acqua. “Chi è il fortunato che stiamo aspettando?”, chiese.
Per la prima volta l’uomo stacco gli occhi dal fiume e si voltò verso di lui: “Il mio capo – disse serio – lo aspetto da giorni”.
All’idea che da un momento all’altro potesse materializzarsi il cadavere di quell’uomo, Pado rabbrividì.
– Cos’ha fatto per meritarsi questo? –
– Mi ha rovinato la vita,ecco cosa – il tono si fece alterato. –Sono stato a disposizione dell’azienda ogni istante degli ultimi tre anni. Domeniche, notti, bastava una telefonata e io correvo in ufficio. Poi si sono fatti avanti nuovi soci, forze fresche, come le chiama lui, e per me non c’è stato più spazio. Così, da un giorno all’altro, mi ha gettato via come una carta sporca.-
Una pallina di carta sporca e consunta attraversò la mente di Pado. Accidenti se gli somigliava. Strizzato, consumato e poi gettato via, lo stesso che era accaduto a lui.
-Purtroppo non ho abbastanza coraggio per ucciderlo – riprese l’uomo, e Pado tirò un sospiro di sollievo, – né tanto meno soldi per fa fare il lavoro a qualcun altro. – Buttò giù un sorso di birra. – Ma il tempo certo non mi manca e sai una cosa? Quando arriverà quel momento io sarò qui a godermi lo spettacolo. –

La sua sete di vendetta strideva con l’elegante completo grigio che aveva indosso. Mentre il fiume continuava a scorrere davanti a loro, quell’uomo dava in pasto alla notte la sua rabbia. Un grido di ribellione che afferrò Pado per il collo, ma invece di soffocare lui ne rimase affascinato.
Chissà se dentro di sé aveva mai corso tutta quella vita?
Forse si, ma doveva essere accaduto un bel po’ di tempo addietro, tanto da essersene dimenticato.
Il suo sguardo si perse nel fiume. Uno specchio d’acqua scura in franto dal chiarore della luna. Poi, d’un tratto, qualcosa venne a galla. Un corpo. Non uno a caso, ma quello di Rosa. Cosa diavolo ci faceva lì? Gli mancò il fiato in gola. Chiuse gli occhi e quando li riaprì Rosa non c’era più. Al suo posto, l’uomo con cui l’aveva trovata a letto. Aguzzò la vista. Il corpo adesso era quello del capo officina. Continuò a galleggiare ancora un po’ davanti a lui, finché non svanì.
Pado si stropicciò gli occhi, guardò l’uomo che gli stava di fianco. Lo trovò impassibile, quindi tirò un sospiro di sollievo. I due rimasero in silenzio, fino a quando quell’uomo non gli passò la bottiglia: – E tu, chi aspetti? –
La domanda lo colse di sorpresa, la birra gli andò quasi di traverso.
-Nessuno – rispose Pado. Voce tesa e un’alzata di spalle come ad allontanare da sé ogni sospetto per gli omicidi appena commessi.
L’uomo si lasciò andare ad una risata: – Ma non dire cazzate! –, tracannò ciò che restava di quella birra e aggiunse – Aspettiamo tutti qualcuno – lo guardò dritto negli occhi, – Tutti. – E tornò ad osservare il fiume.

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Lettera a un tostapane

Caro mio, la vita è capace di farti fare cose che mai avresti immaginato. Penso a Lucio, la prossima settimana farà il suo primo lancio con il paracadute, o a Francesca che ha mandato a quel paese il capo ed è andata a Tokyo a lavorare per la concorrenza. Penso a loro, certo, e penso a me che a trent’anni mi ritrovo a scrivere al mio tostapane. Bizzarro, non credi? Ci sono un sacco di persone a cui avrei potuto scrivere e invece, per una volta che mi decido a prendere carta e penna, mi rivolgo a te. Meglio non farlo sapere in giro.

La sveglia è suonata alle 7.40 come ogni mattina. È domenica e detto tra noi avrei voluto dormire un po’ di più, ma mi sono buttata giù dal letto lo stesso. Ho raggiunto la finestra ad occhi chiusi e quando il mignolo del mio piede si è scontrato su di te, me ne son venuta fuori con il puntuale “Porca puttana!” di buongiorno.

Sono mesi che va avanti così tra noi. Dovrei trovarti una sistemazione migliore. Il pavimento non è il posto per un tostapane, lo so, ma tu non sei come gli altri. La prima volta che ci siamo incontrati era Natale. – Auguri amore mio – ha detto lui. Ho guardato con stupore la scatola che teneva in mano, grande e decorata a festa. Eri quello di cui avevo bisogno, in questo è sempre stato un asso. L’odore del pane caldo avrebbe finalmente accompagnato i miei risvegli.

L’indomani t’ho portato a casa mia. Avrei potuto darti un benvenuto migliore, invece ti ho messo ai piedi del letto in attesa che arrivasse una casa nuova, con un letto, un divano e una cucina per una vita a due. Ci sarebbe voluto qualche mese, ma ne sarebbe valsa la pena.

Di mesi ne sono passati dieci. Io sono ancora qui, lui a casa sua e tu ai piedi del mio letto. Sull’onda delle incomprensioni naufragano i migliori propositi, lo stesso è accaduto a noi. – Così non possiamo andare avanti – ci siamo detti. Siamo stati a fissarci in silenzio un bel po’, decisi a non perderci, e giorno dopo giorno ci siamo reinventati. “Amici” a quanto pare. Mi chiedo se sia stato davvero così o se, tutto sommato, non fossimo gli stessi di prima sotto mentite spoglie.

La giusta distanza per tornare a camminare ognuno sulle proprie gambe, non abbastanza per dirsi addio del tutto. Siamo andati avanti, certo, ma tra baci, carezze e la volontà di preservarci dal passare del tempo. Ho pensato spesso al giorno in cui non avrei più avuto sue notizie, né lui di me. L’ho temuto. Un po’ come si temono i fantasmi, mai abbastanza. Invece quel giorno è arrivato via sms: “Mi vedo con una”. Ho pensato, perché me lo dice così? Deve esserselo chiesto anche lui perché da allora non l’ho più sentito. È che la vita non ti aspetta. Chiunque tu sia, la gente va avanti e lo fa sul serio, mica come me che continuo a inciampare nel passato ogni mattina. Allora sai cosa, caro il mio tostapane, è giunta l’ora di uscire da questa maledetta scatola.

Doveva capitare, prima o poi, e questo è il giorno in cui il poi diventa realtà.
Il lo sono.

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Lettera a un cervello in fuga

Bologna, 27/07/2017

Caro mio, la vita non è altro che un susseguirsi di onde.
Basta osservare il flusso degli eventi per capirlo, per capire che quella in cui viviamo è una stagione di mare grosso, in cui i più navigano ormai a suon di biglietto di sola andata.

Negli ultimi mesi ho salutato molti marinai, pronti a salpare in cerca di un porto migliore di questo. Amici, colleghi, così detti ‘cervelli in fuga’. Sono meno in moto di loro, certo, ma spero davvero di non adagiarmi sulle parole e di non dimenticare mai le storie, i volti, le mani e le braccia che stanno dietro a quei cervelli. Decine, centinaia di braccia che ogni giorno sfidano il mare nel tentativo di intercettare la buona onda.

I marinai li riconosci da lontano: biglietto di sola andata in tasca e occhi che luccicano. Sono affascinanti, entusiasti e timorosi al tempo stesso, regalano sorrisi a denti stretti e abbracci che non finirebbero mai.

Oggi tocca a te, marinaio amico e fratello.
Sei pronto?
È una domanda stupida, lo so. Che ci vuoi fare? Le sorelle a volte sono così, stupide al punto giusto da perdere le parole. M’impegno a frugare tra i pensieri ma non trovo di meglio, così li metto a tacere e ti guardo allontanarti. Passo sicuro e spalle grosse, pronte a sostenere i tuoi sogni.
Un istante dopo svanisci oltre il gate.

Non sei ancora partito e già mi chiedo quando ci rivedremo. Che stupida! Mi rattristo all’idea che passeranno mesi, eppure non verso una lacrima. La tristezza mi prende allo stomaco, mi svuota. È come avere fame all’improvviso, ma è chiaro che mangiare non servirà a molto, certamente non a rimpiazzare quel pezzo di me che stai portando oltreoceano.

Eppure dovrei essere abituata. Ho consegnato pezzi di me in mani amiche e anch’io che resto qui a sorvegliare il porto ne ho piene le mani, di preziosi pezzi altrui. Li custodisco gelosamente e mi moltiplico con loro.

Ripenso a quando era bambina, una bambina felice e intera. Ti farà sorridere che mi definisca così, ma dopo il tuo arrivo intera non lo sono più stata. Con te ho appreso molte cose, in primis la suprema arte della divisione. Sei entrato nella mia esistenza a gamba tesa, prendendoti tutto: camera, giocattoli, attenzioni e anche una consistente parte del mio cuore. Avrò avuto si e no cinque anni quando l’ho capito. Mancava poco all’ora di cena e non so come, a un tratto ti ritrovasti con la testa incastrata tra lo schienale e il piano impagliato di una sedia. Ricordo il mio pianto disperato nel sentire la nonna dire: “Non si può mica rovinare la sedia, gli si taglierà la testa”.
Crescendo abbiamo avuto litigi, attraversato l’immancabile fase dell’indifferenza adolescenziale, ma oggi ringrazio il cielo che quella testa sia rimasta al suo posto.

Un aereo prende il volo, alzo lo sguardo.
E così te ne sei andato anche tu.
Lo dico ma non ci credo. Allora me lo ripeto, che se c’è qualcuno a cui devo credere quella sono io. Ma continuo a non prendermi sul serio. Sarà che sono passati solo pochi minuti, che ho lo stomaco pieno di buchi ma non mi sento sola. Fuori splende il sole e non riesco neanche ad essere triste, non quanto vorrei.
Allora sai che ti dico fratellino?
Avanti, tuffati!
La tua buona onda ti sta aspettando.

IRENE ROMANO

http://festivaldellelettere.it/vincitrice-2017/

Lettera a un cervello in fuga

15 ottobre 2017

E insomma, è andata così.

Mi sono svegliata alle 6.40, che era ancora buio. Doccia, vestiti, borsa e fuori, più spedita che con un calcio in culo.

È andata che mi son detta prendi un Ataf per una volta, che ti fai sempre i chilometri a piedi, che questo rifiuto della comodità inizia a renderti noiosa. Così è andata che ho preso l’Ataf.

E il biglietto? Alle 7.15 la città ancora dorme. Per lo meno la domenica, per lo meno la parte di città in cui vivo. Per fortuna, però, esistono gli sms, così è andata che ne ho inviato uno al 4880105 per il biglietto elettronico.
Ma ecco, è andata che non è andata, perché certi servizi funzionano solo per gli utenti dei gestori seri, mica come me che ho Postemobile. Ma è andata che io mica lo sapevo, l’ho scoperto che ero già sull’autobus, senza biglietto e con un’ansia che metà bastava.

E andava. Si, l’autobus andava, ma non abbastanza da impedire a quel tipo di salire e dire Biglietti prego.
Allora ecco com’è andata.

È andata che gli ho spiegato tutto: i bar chiusi, l’sms… ma lui non si è mosso di un millimetro. Un documento per favore. Va bene la patente? No, preferisce la carta d’identità scaduta. Contento lui.

Poco distante 2 rom iniziano a litigare con il suo collega. Le dispiace scendere che il collega è in difficoltà? Così scendiamo tutti, io, loro e i rom. Che allegra combriccola.

Ci mettiamo solo pochi minuti, dice.

A dire il vero avrei un treno da prendere. Ah, ferma un Ataf alle mie spalle e ci fiondiamo dentro. Addio collega, addio rom. È andata.

Buona giornata, mi dice alla stazione e mi consegna il verbale. 55€. Limortac… Buongiorno a lei.
È andata che la prossima volta me ne vado a piedi.

Salgo in treno, un attimo di quiete. Ma giusto un attimo, eh, che due infermiere attaccano a parlare: turni, riunioni, ma come è antipatico tizio? E caio?

Io leggo, ascolto la musica, mi rigiro, le maledico. Milano non è mai stata così lontana. Ma è andata che alla fine la raggiungo, assieme a 4 buoni amici, ché gli amici o son buoni o che ce li hai a fare?

Sono a Milano. Com’è che andata?
È andata che qualche mese fa un amico mi ha parlato di un festival, il Festival delle Lettere. Tema dell’anno: Lettera a un cervello in fuga.

Perché no?
Così ho scritto. Ho scritto al cervello più in fuga che conosco.
Mio fratello ha la testa sempre in fermento e due spalle grosse, ma così grosse che quando fugge lui smuove altro che aria.

Era l’ora che gli scrivessi, a mio fratello.Così è andata che qualche settimana fa mi è arrivata una mail: sei tra i finalisti. Pare avessero concorso in centinaia. Bella storia!

Oggi eravamo lì, io e tanta bella gente. Un’attrice ha letto le mie parole, una ragazza le ha illustrate con forme e colori. È andata che da centinaia siamo rimasti in dieci, poi tre, e il cuore batteva, cazzo se batteva, e le mani tremavano un po’, e poi… e poi niente, è andata così…

http://festivaldellelettere.it/vincitrice-2017/


il Venerdì _ 00

Di venere e di marte né si sposa né si parte, né si da principio all’arte.

Già! Me lo ripeto da tutta una vita. Quella che sta per concludersi, però, è stata una settimana strana. Forse sarebbe meglio dire assurda. Si, assurda, ma così assurda, che penso sia esattamente la settimana giusta per dare il via a qualcosa proprio di venerdì.

Sarà l’incalzare dei giorni e la fine dell’anno che si fa sempre più vicina, o forse l’approssimarsi del Natale, che ogni anno porta con sé ansie e corse al regalo dell’ultimo minuto. Chissà… quel che è certo è che la gente sta impazzendo e sebbene sembri impossibile andare oltre il limite raggiunto, questo periodo dell’anno è solito riservare a riguardo interessanti sorprese, ahimè non solo ben infiocchettate sotto l’albero.


Di gente bizzarra in giro ce n’è davvero tanta. Ne vedo un po’ ogni giorno, scontrosa, ironica, tenera da lasciar senza parole.
Si potrebbe pensare che la segretaria di uno studio medico passi le sue giornate a vedere sempre le stesse facce, a far sempre le stesse cose, a farsi due palle, insomma… invece le cose non stanno affatto così. Certo, avere a che fare con gli altri richiede spalle larghe e una bella pazienza, ma ci sono incontri capaci di ripagare gli sforzi.
Cosi ho pensato, perché non dar spazio a questi incontri? Ché in fin dei conti, nel frullatore inarrestabile  della quotidianità, sono ciò che fa la differenza. Raddirizzano una giornata storta, ad esempio, fanno riflettere o ti piegano in due dalle risate. Allora ho deciso, ne sceglierò uno a settimana: un incontro, una frase, uno scambio di battute, che a suo modo abbia fatto la differenza.

Parto con le migliori intenzioni e se poi non dovessi continuare, sarà stato perché di venere o di marte… be’, intanto penso a un buon inizio, che chi ben comincia, si sa, è a metà dell’opera. Così le prime parole sono quelle d’una collega, nonché preziosa amica, che a fine di una tumultuosa giornata di lavoro, ricca di stravolgimenti nell’assetto organizzativo, mi si è fatta vicina e ha detto: “Sai, di tanto in tanto la merda va fatta arieggiare, sennò va a finire che la unn’è mica bona a fare da concime”.

E allora sai icchè?
Arieggiamo!