Ponta de Leme Velho _ Ilha de Sal, 9 febbraio

Ieri sera, in giro, ho visto dei volti di donna bellissimi, sorridere a chi passava e anche alla vita, ché nell’aria c’era un sacco di bella musica e allegria. E loro a ballare, con in testa treccine ben tirate o foulard colorati.

Le donne su quest’isola sono affascinanti. Le guardi e ti chiedi, chissà quali pensieri ci saranno dietro a quegl’occhi scuri, mentre i bambini giocano col mare, si rotolano nella sabbia e gli uomini rientrano dalla pesca.

Più li osservo, più mi arriva forte il loro senso di comunità. Non li vedi mai da soli, anzi, son lì che parlano, si aiutano. I bambini, poi, sembrano essere tutti di tutti. Ed è una cosa davvero bella, che noi, ahimè, abbiamo quasi del tutto perso. Mentre invece, be’, non ci farebbe affatto male fare un passo indietro. Magari riusciremmo di nuovo a fidarci l’uno dell’altro e chi lo sa, forse anche a sorridere come loro, bocca spalancata e cuor leggero.

In fondo, se ci penso, con questo sole e un mare così, come si fa a non sorridere? L’acqua è talmente chiara che potresti star tutto il giorno a mollo. A goderti il fresco dell’Oceano e quei colori, che a casa, oh, non te li ritrovi mica quei colori lì. E allora pensi, che relax, che pace.

Già, solo che noi non siamo mica venuti fin qua solo per questo. Ché ok il relax e la pace, ma se questa la chiamano l’isola di sale, be’, vorremmo anche capire il perché. Così ci buttiamo ad est, verso Ponta do Leme Velho e poi a nord, per raggiungere le saline di Santa Maria.

Camminiamo tra ciottoli neri su cui s’infrangono le onde del mare, terra rossa e morbide dune di sabbia bianca. E più andiamo avanti più mi meraviglio, ché il paesaggio, da queste parti, cambia di continuo. E lo fa così rapidamente che non riusciamo a stargli dietro. Un po’ come alle indicazioni: ciottoli, paletti, lamiere. Dovrebbero star lì, a guidarci, ma noi, oh, non ne vediamo nemmeno l’ombra.

Dopo un’ora buona, però, riusciamo comunque ad arrivare. Così, finalmente, maciniamo passi anche sulla crosta di sale, che scricchiola arida sotto i nostri piedi. E poco importa se per farlo abbiam dovuto tagliare tra le dune, seguendo quad e gruppi a cavallo. La nostra, non sarà stata la strada più corta, certo, ma alla fine, be’, è comunque riuscita a portarci dove volevamo.

Santa Maria _ Ilha de Sal, 8 febbraio

Ieri il mare sbatteva impetuoso sulla Praia da Chave. Le onde si accavallavano in ogni dove, per poi distendersi sinuose sulla sabbia. Le vedevi che si facevano vicine, quasi a volerti portar via con loro, e un attimo dopo, oh, non le trovavi più, ché s’eran già ritirate.

Siamo stati a guardarle in silenzio per un po’. Impossibile non farlo, ché la natura quando è così forte e selvaggia è davvero affascinante. Al suo cospetto ti senti piccolo, ma così piccolo… che hai voglia ad avere le spalle larghe!

A dire il vero, comunque, selvaggia lo sono un po’ anch’io, ché da queste parti il vento gioca con tutto, figuriamoci se si dimentica di farlo con me e così, adesso, i miei capelli sono un casino totale. Ma in fondo, be’, i casini a me piacciono e allora via, avanti, ché dopo l’isola di sabbia, vuoi non vedere quella di sale?

Per raggiungerla impieghiamo più o meno il tempo che occorre per andare da Incisa a Figline nell’ora di punta. Un quarto d’ora e sbam, eccoci arrivati a Sal, uno sputo di terra in mezzo all’oceano.

Le sue dimensioni, comunque, seppur ridotte non le impedisconodi accogliere capoverdiani in vacanza e visitatori stranieri.

Già, perché il turismo non manca neanche qua, ma per fortuna, a Sal, ha una connotazione più internazionale, così, almeno in parte, possiamo continuare a confonderci. E allora, be’, ci diamo in pasto alla notte di Santa Maria, ché oggi è anche venerdì e un po’ di movida, ci sta bene, ancor più quando la musica che esce dai locali è quella di Bob Marley e James Brown. Se poi becchi pure una jam session, tra musiche capoverdiane che rallegrano l’atmosfera e signore in là con l’età che ricambiano cantando Frank Sinatra, be’, restare indifferenti è davvero difficile, ché se intorno sculettano tutti, dico io, non ci tireremo mica indietro noi?

Sal Rei _ Ilha de Boa Vista, 7 febbraio

Stanotte son stati gli asini che ragliavano a tenermi sveglia, mentre al mattino, a dar la sveglia a tutti ci hanno pensano i picconi, che qua a Sal Rei, oh, entrano in azione quando è appena l’alba.

Del resto, questa è una città in divenire. Un cantiere aperto messo su in gran parte da stranieri per stranieri. Un vero peccato, no? Ché i luoghi, per restare autentici, dovrebbero rimanere di chi li conosce e non finire in mani altrui, pronte a riempirli di grandi strutture, dove la gente si culla nell’illusione di star vivendo chissà quale esperienza esotica per poi tuffarsi in colazioni continentali.

Son cose tristi, via, quasi quanto l’enorme numero di italiani che si trovano su quest’isola. Li riconosci da lontano, splendidi splendenti, che si salutano, si baciano, par d’esser sui navigli. Uè, figa, non te la fai una puntatina a Boa Vista nel fine. Li senti, poi, che fanno a gara a chi vien qui da più anni. Uno è dal ’98. Ed io penso, dal ’98… ma dove diavolo son finiti quelli che parlano creolo? Ché si stava così bene quando non ci si capiva una mazza.

Be’, per fortuna qualcuno del posto è rimasto anche qua. Basta infatti spostarsi su Avenida dos Pescadores, per ritrovarsi tra piccole barche e grandi ceste di pesce fresco, e in un attimo siam di nuovo altrove, immersi nei colori sgargianti delle piccole case d’intorno.

Al porticciolo ci son bambini che si tuffano in acqua per aiutare i grandi, dediti a tirar su reti, a pulire tonni, cernie. E una volta finito, be’, ecco che arrivano le donne. Carico in testa e via. Chissà dove, con tutto quel ben di dio.

Vederli all’opera, pialletto alla mano intenti a sistemare una barca, o a costruire chissà quale oggetto con il corallo, è affascinante. Non capire niente di quel che si dicono, poi, è una sensazione impagabile, di libertà e gratitudine. Ché finalmente si torna a confonderci con ciò che ci sta intorno.

Per confondersi sul serio, però, non c’è niente di meglio che buttarsi sulla Praia de Estoril, una lunga distesa di sabbia che si tuffa in un mare cristallino. E così, decidiamo di far lo stesso anche noi e di tuffarci, ché chissà quando ci ricapita un mare così.

Il vento soffia ed è davvero un piacere. Il sole, infatti, non ha smesso di splendere un attimo ed io son qui a chiedermi, come farò a non diventare un’aragosta? Ché da queste parti, va via come il pane, ma anche no. Il mio bel casino mi consiglia di fare come con la fiorentina: un po’ di minuti da una parte, un po’ dall’altra e via, pronta. Sarà che stiamo mangiando solo pesce, ma ho come la sensazione che la carne gli stia un po’ mancando, ché stanotte, mi ha detto, si è sognato una bella grigliata di carne. E allora oggi cachupa! Ché a pensarci, ci son tanti modi per confondersi con ciò che ci sta intorno e questo, be’, non mi sembra affatto male.

Rabil _ Ilha de Boa Vista, 6 febbraio

Con un po’ di nostalgia, oggi abbiam salutato l’isola di Santiago, la più africana di Capo Verde, che a quanto ci riguarda può tranquillamente giocarsi anche il primato per la più dinamica, dato che alle sei e mezza di stamani erano già tutti in strada a camminare, ad allenarsi. E noi lì, a chiederci, ma la gente, qui, non si ferma mai?

A modo nostro, comunque, non ci fermiamo neanche noi e infatti oggi raggiungiamo Boa Vista, l’isola di sabbia. Se la chiamano così, dev’esserci per forza un perché e in effetti non è difficile capire quale sia, dato che in neanche mezz’ora di volo veniamo catapultati in un’altra dimensione, fatta di dune bianche e sconfinate distese di sabbia.

All’aeroporto incontriamo Klaim. Be’, a dirla tutta, il nostro, più che un incontro, all’inizio, è un vero e proprio scontro. Non facciamo in tempo a metter piede sull’isola, infatti, che siam subito oggetto di una contesa tra autisti, che si gridano contro e strattonano zaini. E noi lì, zitti, a guardare, ché lo capisco, due tipi così non vi capitano certo tutti i giorni, ma anche meno va bene lo stesso, eh.

Alla fine, comunque, ad avere la meglio è Klaim, e per fortuna, dico io, ché dopo un po’ che se ne sta serio alla guida del suo aluguer, apre bocca e lì capiamo d’aver a che fare con un tipo davvero in gamba. Disponibile, alla mano e con un buon sorriso stampato sul viso. Non gli manca proprio niente, parla persino italiano. Così, ne approfittiamo per toglierci delle curiosità. Il significato della parola Baixa, ad esempio, che qua la trovi un po’ da per tutto. O l’estensione di questa isola, che ci dice essere la terza dell’arcipelago per dimensioni, ma decisamente diversa delle altre. In effetti, be’, ovunque ci si giri non si vede altro che polvere.

Prima di raggiungere Sal Rei, chiediamo a Klaim di fare una piccola deviazione a Rabil, un tempo capitale di Boa Vista. E lui, be’, non si tira certo indietro, è anzi ben contento di portarci nella città in cui vive con sua moglie e cinque figli, che son poi la cosa che più lo rende felice in questa vita. E chissene, se i soldi son pochi e il lavoro, da queste parti, c’è e non c’è. A lui basta tornare a casa la sera, sentirsi chiamare papà ed ecco che passa la paura. Mica come voi, dice, che non fate altro che pensare al lavoro, a fare soldi… Io, voi, proprio non vi capisco. E ride.

Così, tra una chiacchiera e l’altra arriviamo a Rabil, che altro non è che una lunga strada di case che si susseguono una dietro l’altra nel bel mezzo del niente. Le irte montagne di Santiago e i verdi palmeti, ormai, non sono che un ricordo, ché qua il sole picchia forte e a spingersi verso l’alto ci provano solo i pali della luce, quando ci sono.

Camminando, scopriamo però che anche qui ci son tanti colori, che s’impongono sul bianco d’intorno. Spuntano vivaci sulle facciate delle case e sui vestiti che indossano i pochi che si vedono in giro, ché sotto questo sole, oh, fa caldo a tutti, mica solo a noi.

I bambini sono a scuola. Nel silenzio che domina, le loro parole si sentono in ogni dove, un po’ come gli sguardi, che anche se non li vedi, son dietro a porte e finestre che ti osservano. Gli uomini, invece, sono a lavoro. C’è chi tira su case e chi costruisce un tavolo, più in là qualcuno ripara scarpe, altri invece lavorano la ceramica. Insomma, si adoperano un po’ tutti ed è un piacere guardarli, ché qua, per far e cose, si usano ancora le mani. Un modo non da poco per restare autentici, in contatto con le cose e con se stessi, mica come da noi, che senza le macchine, oh, sembra non si riesca più a fare nulla.

E così, le mani oggi le usiamo anche noi, per salutare Klaim e ringraziarlo. Ché un benvenuto così, e chi se l’aspettava!

Prainha _ Ilha de Santiago, 5 febbraio

Ieri sera, a cena, ci siam tuffati in due ricche ciotole di riso al pesce. E quando dico tuffati, intendo nel vero senso della parola, ché per buttar giù tutto, oh, abbiam dovuto sguazzare dentro a quelle due ciotole davvero per un bel po’. Ma del resto, ci siam detti, come si può non finire un simile ben di dio? E allora, avanti tutta!

Solo che poi, stamani, alzarsi dal letto è stata un’impresa mica da poco. E così, il massimo che siam riusciti a fare, è stato rotolare verso il mare, fino a Praia Quebra Canela, dove ci siam concessi un po’ di relax, che ogni tanto, be’, ci vuole proprio. Oggi, poi, ché finalmente è anche tornato a splendere il sole.

E che sole, dico io, ché da queste parti, oh, se il sole dice di splendere, non lo ferma mica nessuno. Quando infatti il vento smette di soffiare, il suo calore te lo senti proprio addosso, come una grande mano che ti schiaccia sulla sabbia per non lasciarti andare via più.

La cosa non sembra riguardare in alcun modo i ragazzi del posto, che anche oggi, nonostante il sole cocente, han continuato imperterriti ad allenarsi. Corsa, flessioni, squat. Ma che è? Ce lo siam chiesti un bel po’ di volte, mentre stavamo lì a guardare, spiaggiati come capodogli tra cielo e sabbia, ché oggi, più di questo, non avevam proprio voglia di fare.

Tanto, a fare, ci pensano loro, i ragazzi dell’isola. A suon di corsa, piegamenti e squat, a non finire. Tanto che a una certa, oh, più che in spiaggia, ci siam chiesti, non è che siam finiti in palestra?

Ad essere sincera, però, in giro non si vedono solo addominali ben scolpiti e gambe toniche. Qua e là, infatti, si aggira qualche mosca bianca che improvvisa, goffa, sollevando pietre nella speranza di definire braccia, che va detto, di fianco alle altre, be’, di speranze sembrano averne davvero poche.

Quando alle nostre spalle parte un po’ di musica reggae, penso, mica male, ché intorno ci son ragazze che seguono il ritmo e scuotono anche, culi, che da queste parti, oh, son dei signori culi, mica delle comparse come da noi.

Insieme a loro ballano anche altri, ché sotto questo bel sole e con l’oceano che sbatte davanti, be’, resistere è davvero impossibile. Allora tutti a smuoversi, e ciascuno a modo suo, eh, ché dove un tempo veniva gestita la tratta degli schiavi, oggi nell’aria si respira gioia, libertà.

Accanto a noi, il ragazzo che ha messo la musica inizia a cantare. E insieme a lui, altri tre, che fino a poco prima se ne stavano appesi a una traversa ad allenare i bicipiti, fanno altrettanto. Allora si che è festa ed è una festa a cui partecipano proprio tutti. E quando all’improvviso spunta un pallone, via, tutti a corrergli dietro, a giocare, frikkettoni e non, ché saremo anche lontani da casa, ma per certe cose, oh, tutto il mondo è paese.

Anche l’unico bimbo che si vede in spiaggia corre, assieme al suo palloncino argentato. Se lo tira dietro con una corda, ma poi, all’improvviso, se lo ritrova davanti, ché anche il vento ha voglia di giocare e così, ogni tanto, torna a farci visita.

Un giorno, magari, anche quel bimbo verrà ad allenarsi su questa spiaggia. A vederlo, direi che il fiato è quello giusto, ché da quando siamo arrivati, oh, quello scricchiolo non ha smesso di correre un attimo. Ma son ben felice che a quel tempo manchi ancora un po’, ché anche se non vuoi, crescere ti cambia, mentre io vorrei che riuscisse a conservare il più a lungo possibile quel sorriso lì, che a vederlo, mentre corre col suo palloncino sulla spiaggia, oh, mi vien tanto da sorridere anche a me.

Calheta de São Miguel _ Ilha de Santiago, 4 febbraio

Avere un piano B, nella vita, è sempre importante. E a pensarci bene, lo è ancora di più quando ti trovi a Praia e all’indomani della tua partenza per Tarrafal, sbam!, ricevi una mail, con cui l’affittacamere ti dice che, sebbene tu abbia prenotato da giorni, d’un tratto la tua stanza dall’altra parte dell’isola non è più disponibile. Un Pedidos de desculpa e arrangiatevi, sai.

Ma noi, per fortuna, non siam tipi da farci scoraggiare e così, stamani, la macchina l’abbiam noleggiata comunque, ché anche se non arriveremo fin su a Tarrafal, un po’ a nord siam pronti a spingerci lo stesso.

Così, abbandonato il caos della città e i grandi palazzi, scopriamo che al suo interno, Santiago è un’isola gialla, di coltivazioni di mais a perdita d’occhio e montagne irte che svaniscono oltre le nuvole.

Sparpagliati qua e là, ci son piccoli villaggi, con case di mattoni e tetti di paglia, da cui escono bambini che corrono e sorridono, gridandoci dietro chissà cosa. Assieme a loro, scorrazzano anche le galline, mentre i cani, be’, quando ce n’è, preferiscono abbandonarsi sull’asfalto. Che in fondo è lo stesso che piace anche alle vacche, magre da far paura, ma che non temono di camminare nel bel mezzo della carreggiata. E se poi si fa un po’ di fila, ma che fretta c’è?

Il cuore di quest’isola è la città di Assomada, che noi accarezziamo appena, ma da queste parti, anche le carezze più leggere han sapori ben speziati e tinte forti. Un po’ come quelle con cui, anche qui, si vestono le donne, che se ne vanno in giro instancabili e fiere, con enormi ceste sulla testa, tanto che io, be’, non smetterei mai di guardarle, ché in certi luoghi si respira un’aria lontana, ma così lontana… e che qui, oh, si fa lontana per davvero, mica come l’altro giorno nel Platô.

Spostandoci ad est, il paesaggio cambia rapidamente. Dal giallo del mais si passa al verde acceso delle palme e dei banani, che si estendono per chilometri e chilometri, fino a tuffarsi in mare, a Calheta de São Miguel.

È in questo piccolo villaggio, con murales colorati e piccole barche pronte ad entrare in acqua, che ci fermiamo. A guardarci intorno, a ricambiare sguardi gentili, e perché no, a riprendere un po’ di fiato, ché ancora, io, mica ci credo che tutto questo l’abbiamo visto per davvero. E poco importa se il cielo è grigio anche oggi e rischio di tornare a casa più bianca di quando son partita. Di colori, bastan quelli di quest’isola, ché più passano i giorni più mi chiedo, ma quanti ce ne saranno ancora?

Cidade Velha _ Ilha de Santiago, 3 febbraio

Stamani ci siam svegliati col cielo tinto di un grigio che non prometteva niente di buono, così ci siam messi la felpa e via, verso ovest, fino a Cidade Velha.

Ad accoglierci, troviamo sguardi che lasciano trapelare curiosità, ma in modo discreto, senza dar troppo nell’occhio, mica come i due cani che ci son venuti incontro all’inizio e che un passo dopo l’altro ci han seguiti finché non ce ne siamo andati. Attraverso la piazza principale, tra le case, fin sul mare, se ne sono stati sempre con noi. E così, è andata a finire che il nostro bel giro, stamani, l’abbiamo fatto in quattro.

Di quella che è stata la prima capitale di questo Paese, oggi non resta che un pugno di case arroccate, stretto tra mare e montagna, dove sin dalle prime ore del mattino si vedono in giro donne, bambini. Poco più in là dei pescatori, intenti a tirar su le loro reti.

Bere un caffè? Non se ne parla nemmeno. E non soltanto per dire, eh, ché da queste parti, oh, non se ne parla sul serio. Non facciamo in tempo ad arrivare, infatti, che una ragazzina ci mette subito. a tacere con un secco No. E per esser certa di farsi intendere ce ne dice altri due: No, no. E allora via, fin sulla piazza, dove per fortuna c’è un ragazzo che vende banane. Così ne prendiamo qualcuna, ché se siamo finiti su Rua Banana, dico io, non sarà mica un caso.

Ovunque si vada, nell’aria risuonano parole a noi incomprensibili, che però son così belle da sentire, ché ti ci metteresti a ballare da come son simili a musica. Intendersi, invece, è ben altra cosa, ché se già è difficile capire il portoghese, figuriamoci il creolo. Per fortuna, però, c’è chi tenta di aiutarci, come la cameriera che incontriamo ad Achada Santo Antonio, che con un battito di braccia, ci spiega che frango vuol dire pollo e così siam pronti per ordinare il pranzo.

Un tentativo lo fa anche il signore portoghese in là con l’età che incontriamo quando inizia a farsi sera e le onde s’infrangono sulla spiaggia di Prainha. È venuto fin qui da Lisbona per star con suo figlio. Questa è l’unica cosa che capiamo di ciò che dice. Ma l’entusiasmo con cui ci parla è tale che anche se non capiamo una mazza, restiamo comunque lì ad ascoltarlo. A far si con la testa come due cretini e a ridere con lui di chissà cosa, ché in fondo, davanti a un sorriso così, che senso ha farsi troppe domande?

Praia _ Ilha de Santiago, 2 febbraio

Alla fine son bastate quattro ore di volo e un bel timbro sul passaporto, a darci il benvenuto in questa manciata di isole che è Capo Verde.

Qua, al mattino, ci sono uomini di tutte le età che corrono e fanno esercizi in spiaggia, mentre noi vaghiamo sbattuti qua e là dal vento in cerca di qualcosa da buttar giù, ché l’attività fisica, si sa, stanca, e poco importa se a farla sono gli altri.

Per trovare qualcosa di aperto, però, tocca spingersi fino a Praia, ché oggi è sabato e qua a Prainha, fatta eccezione per chi corre, si svegliano tutti con calma. Così, abbandoniamo il mare per salire fin sul Platô, dove i colori sono così tanti e così vari che ovunque mi giri, oh, ne scopro di nuovi.

Ci son fragole e banane, che escono da grandi ceste. Banchi di verdura stracolmi al Mercado Municipal, dietro ai quali spuntano donne vestite di mille tinte. Ci son poi ragazzine che sfilano per Avenida 5 de Julho sotto gli sguardi indiscreti dei coetanei, e bambini che ridono e corrono per strada, ché oggi è sabato e a scuola ci si torna lunedì. Evvai!

I tavolini dei caffè sono occupati da gente del posto, signore formose che addentano fette di torta e distinti uomini in camicia che vanno avanti a sorsi di grogue.
Tutti sorridono, parlano, allora noi ce ne stiamo volentieri un po’ zitti, a guardarci intorno, a perderci in quel luminoso carnevale di voci e colori; nella musica che vibra nell’aria, ovunque ci si trovi, e che porta altrove, lontano, che a pensarci bene, oh, poi tanto lontano non è, ché lontano è anche qui, esattamente dove ci troviamo noi adesso.

Allora ispiro forte, ché questo lontano lo voglio tenere tutto per me. E se a una certa nell’aria si fa spazio il profumo di aragosta alla griglia o quello di feijoada de marisco, be’, avanti tutta. E poco importa se la maglietta si macchia d’unto. Alle buone maniere ci penseremo poi, eh.

Lisbona – Capo Verde, 1 febbraio

La pioggia di ieri, a sorpresa, se n’è andata e così, la bella Lisbona ci ha permesso di salutarla col sole, che stamani splendeva alto e convinto nel cielo. Allora via, fuori, ché chissà quando ci torneremo da queste parti.

Il saluto non poteva che avere il sapore del pan de dios, un misto di dolce, salato e saudade, ché manco siamo arrivati e già ce ne dobbiamo andare. Già, perché tra poche ore, io e il mio bel casino, abbiamo un altro aereo da prendere. Prima, però, rotoliamo fin sulle rive del Tago, ché prima di andarcene mi par giusto salutare anche lui.

Oggi brilla, sempre maestoso ma decisamente più calmo di ieri, sotto questo bel cielo azzurro. Il vento, invece, non è calmo per niente. Mi piacerebbe poter dire che si diverte a giocare con i miei capelli, ma ahimè, il loro, più che un gioco, a tratti pare un vero e proprio litigio.

Meglio buttarsi all’interno, va, tra gli alti palazzi e i vicoli stretti, alcuni dei quali, anche se è passato un anno, li ricordo a menadito. Altri invece li ho scoperti stamani. Un buon compagno di viaggio serve anche a questo, a spingerti oltre, ad aprirti gli occhi, ché il più delle volte quel che si vede in due, non lo si vede mica in uno. C’ho messo un po’ a capirlo, forse perché per farlo dovevo prima trovare questi occhi qui.

Son occhi a cui mi affido volentieri, anche nel salutare questa città luminosa e spingermi a sud, là dove nessuno dei due è mai stato.

Lui dorme al mio fianco ed io, be’, non posso fare a meno di stare a guardarlo, mentre intanto è scesa la notte, là fuori qualcuno canta ed io son qui che mi chiedo, chissà come sarà il nostro risveglio domani?

il Venerdì _ 08

La settimana è stata corta anche a questo giro. Stavolta, però, non son stati la febbre e il raffreddore a buttare all’aria i miei piani, costringendomi a letto. No. Stavolta niente letto, niente riposo, ma uno zaino in spalla e un biglietto aereo tra le dita, ché dopo aver corso e ricorso, be’, un po’ di ferie penso di meritarle anch’io.

È quello che mi ripeto da settimane, anche se a tratti mi è sorto qualche dubbio, dato che riuscire a partire stavolta è stata una vera impresa, tra visti errati, carte non abilitate agli acquisti online e acciacchi, che se ci penso, agli acciacchi, non ne avevo mai avuti tanti come in questo primo mese dell’anno, oh.

Quando finalmente credevo di poter tirare un sospiro di sollievo, ci s’è messa la neve, ché mi par giusto non farsi mancare neanche quella il giorno prima della partenza. Ma alla fine, per fortuna, ce l’abbiam fatta e l’aereo l’abbiamo preso sul serio.

Prima, però, a lavoro mi son data un gran da fare. Ché la settimana sarà stata anche corta, ma a Risana, anche quando è corta, la settimana dura un bel po’ di ore. Tante da non farti mancare proprio niente: incontri, sorrisi, ahimè qualche arrabbiatura. Be’, per fortuna, ho con chi condividere tutto ciò. Soprattutto quest’ultime… Dirlo sarà anche banale, ma credetemi, nel marasma che è oggi il mondo del lavoro, non è affatto cosa da poco avere delle buone spalle su cui poter contare.

Io devo ammettere che a Risana, di spalle, ne ho davvero tante. Qualcuna, va detto, è decisamente molto di più. Penso alla Mau, ad esempio, alla Clau o alla Tere, che all’idea che partissi mezza e mezza, oh, nelle scorse settimane son state più in pensiero loro di me. Penso agli abbracci che m’hanno dato mercoledì, alle parole della Mau, al sorriso della Sarina, ché dall’entusiasmo, oh, sembrava quasi dovessero essere loro a partire.

Su, dai, che son solo un paio di settimane! Ora che ci penso, però, non capita mica tanto spesso che io manchi da là dentro per tutto ‘sto tempo… Chissà come sarà, starmene fuori?

Divertiti, rilassati e non ci pensare, mi ha detto la Elsa. Che poi è quello che m’hanno detto un po’ tutti. Io li ho accontentati e ho risposto: Tranquilli, non vi penso. Ora che ci penso, però, non so mica se saprò esser di parola. Ché anche a non volere, cari mie, non fosse altro per le ore che ogni giorno passiamo insieme, siete diventati la mia seconda casa. Quindi mi sa tanto che nonostante i mie sforzi, be’, di tanto in tanto finirò col pensarvi.