il Venerdì _ 02/2023

Tutto in questo mondo va a periodi: la moda, le tendenze musicali, il modo in cui si portano i capelli… persino le parole che si usano.

Negli ultimi anni, ad esempio, complice la pandemia si son fatte largo nel linguaggio comune le parole resilienza ed empatia.
Due parole di cui, a mio avviso, la maggior parte della gente fino al marzo 2020 nemmeno conosceva l’esistenza, ma dopo quanto accaduto, chissà come, sembra che ognuno abbia subito una trasformazione grazie alla quale ci sentiamo tutti resilienti e soprattutto mooooolto empatici.

Sarà che col lavoro che faccio, per me la resilienza è pane quotidiano da tempi non sospetti. Proprio come l’empatia. Vuoi mettere avere a che fare ogni giorno con decine e decine di pazienti alle prese con orari da far tornare, lamentele, richieste di sconto, consigli (non richiesti) su come fare il mio lavoro da chi nella vita fa tutt’altro… E così, va da sé che quando mi capita di sentire una di queste due parole vengo subito colta da un moto interiore di repulsione.

Per carità, la colpa non è certo la loro, di quel susseguirsi inconsapevole di lettere. Bensì di chi se ne riempie la bocca, privandole nella pratica di tutto il loro prezioso significato.

A tal proposito, il luogo in cui lavoro è un punto d’osservazione perfetto. Grazie al quale, dopo anni e anni di attenta analisi, posso permettermi di dire che pochi di quelli chi si ritengono empatici lo sono veramente.

Pendiamo quanto accaduto l’altro giorno, ad esempio.
È un pomeriggio come tanti quando si presenta in studio un ragazzino accompagnato dal babbo. La visita – della durata programmata di 30 minuti – è volta a controllare l’andamento della terapia ortodontica fissa. E fin qui niente di strano, siamo dal dentista. Se non fosse che il ragazzino in questione si presenta non solo con 2/3 attacchi staccati – il che implica un tempo maggiore per sistemare la cosa -, ma anche con i denti talmente ricoperti di tartaro per la scarsa igiene da costringere la dottoressa a ripulire il tutto per poter intervenire sull’apparecchio.

Il risultato, inevitabile, è stato che l’appuntamento invece di 30 minuti ne è durati 75, con un conseguente ritardo a pioggia sui pazienti successivi.

Cose che capitano, penserà qualcuno, del resto dai medici funziona così. E in effetti è vero. Scoccia dirlo, ma quando si ha a che fare con i medici spesso le cose vanno così. Ma in fondo è anche vero che è una ruota che gira, e se una volta tocca a te aspettare la volta successiva ad aspettare sarà un altro. E avanti all’infinito.

Pensate infatti che l’ultima volta che questo ragazzino era venuto in studio, era toccato a lui aspettare. Ma evidentemente, il babbo, non conoscendo la sopracitata regola della circolarità, allora non aveva perso tempo ad assalire la segreteria con lamentele e pretese di puntualità.

Stavolta, invece, i genitori degli altri si solo avvicinati gentilmente per chiederci cosa stesse accadendo visto tutto quel ritardo.
“La dottoressa ha avuto un imprevisto, ma ha quasi finito”, abbiamo detto. Perché se una cosa l’abbiamo imparata è che la verità, talvolta, da queste parti va tenuta nascosta. Soprattutto se c’è il rischio che in sala d’attesa gli animi si scaldino. Meglio che non si sappia in giro che il ritardo è dovuto a un paziente che si è presentato con la bocca a pezzi senza avvisare, costringendo la dottoressa ad un lavoro di 75 minuti invece di 30. Insomma… meglio per lui che non si sappia.

E infatti anche quel giorno noi non l’abbiamo detto a nessuno. E neanche il babbo, mentre aspettava il figlio in sala d’attesa sempre più gremita di pazienti, ha proferito parola. Se n’è stato zitto, dando l’impressione di aver finalmente capito che certe cose possono capitare. A chiunque, persino a tuo figlio. E se l’altra volta hai atteso, stavolta sei tu che stai facendo attendere gli altri.

Non nego che il silenzio defilato di quell’uomo ha infuso in noi segretarie più d’una speranza. Perché un paziente che prende coscienza della condizione dell’altro o del suo stato d’animo – sia esso un collega, un dottore o un altro paziente – è sempre un gran successo. Ma la nostra speranza ha avuto vita molto breve e infatti si è frantumata nello stesso istante in cui il ragazzino, finita la seduta, è riapparso in sala d’attesa.

Non appena l’ha visto il babbo è balzato in piedi, l’ha preso per la mano e, senza neanche accennare un saluto ai presenti, è uscito di corsa pronunciando un risentito “Mai più e mai poi”.

E noi siamo rimaste lì, senza parole, alla faccia dell’empatia, sai!

Lanzarote _ 03

Dopo aria, acqua e terra, oggi è stato il turno del fuoco.

In un’isola come questa, dove la natura da sfoggio di sé nei modi più disparati, mi pare giusto dare spazio un po’ a tutti. Allora, invece di spingerci a nord come gli altri giorni, una volta giunti a Yaiza abbiamo svoltato a sinistra per attraversare il Parque Nacional de Timanfaya: una sconfinata distesa di colata lavica sulla quale svettano le Montanas del Fuego, originate da uno dei più grandi cataclismi vulcanici della storia.

Un luogo affascinante e magico, che la magia stamani l’ha fatta sul serio, facendomi tornare bambina in un baleno. È successo nel momento in cui sono scesa dall’auto e mi son trovata davanti a degli enormi ammassi di lava solidificata, tra i quali, incapaci di resistere, io e Francesco ci siamo incamminati per raggiungere poi la Caldera Blanca.

Piccola lo sono stata per un bel po’, anche quando sotto ai piedi avevo la sabbia nerissima di Playa del Janubio e negli occhi il riflesso accecante delle saline.

Perché tornassi grande c’è voluta una cerveza ghiacciata. Ne abbiamo bevuta una a El Golfo, mentre le onde dell’oceano si schiantavano violente sulla scogliera e noi, senza alcun pudore, ripulivamo l’ennesima deliziosa cazuela di pulpo, gamba y champinones a suon di scarpetta.

Forse avremmo potuto trovare un altro modo per salutare Lanzarote, ma a noi è sembrato decisamente il migliore; per dirle ciao e ringraziarla per essere riuscita in così poco tempo a regalarci tutta la sua meraviglia.

Lanzarote _ 02

Che il vento a Lanzarote fosse una costante l’avevamo capito.
A quanto pare, però, lo scompiglio che regna tra i nostri capelli da quando siamo arrivati sull’isola non è abbastanza e infatti oggi abbiamo deciso di oltrepassare El Rio e raggiungere La Graciosa.

Una traversata che ha coinciso con la mezz’ora più lunga della mia esistenza. Trascorsa in balia della furia dell’Atlantico, a bordo di un traghetto che s’impennava manco fosse un cinquantino, inclinandosi prima a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra…

Insomma, in quella mezz’ora io e Francesco abbiam fatto una tale scorpacciata di mare che, una volta arrivati nel piccolo isolotto, abbiam pensato bene di buttarci nell’entroterra senza passare dal via e darci in pasto alle sue dune sabbiose, interrotte qua e là da alti rilievi striati di rame.

Là, tra quelle dune, ricoperte di cespugli e chiocciole bianche, abbiamo scoperto che La Graciosa è graziosa sul serio, soprattutto quando dopo una buona ora di cammino il mare torna a farsi vivo, ma stavolta è calmo e pronto a deliziarti con le sue infinite tonalità d’azzurro.

Dirgli ciao è stato molto difficile. Ma del resto, altrove, c’erano altri colori ad aspettarci: il bianco degli edifici di Tengue, ad esempio, o il nero, intenso e perfetto, dei vigneti che si spingono verso sud.

E poi, udite udite, da stasera ce n’è uno nuovo: il rosso dei nostri nasi. Un regalo – l’ennesimo – che dobbiamo a quel burlone che si aggira da sempre sull’isola, indisturbato e impunito, e che la gente da queste parti chiama amichevolmente ‘viento canario’.

Lanzarote _ 01

La terra di quest’isola ha il colore della ruggine. Ma non solo.
A nord, ad esempio, la natura regala distese di lava scura e verdi licheni. È un contrasto meraviglioso, che ci ha sorpresi mentre lasciavamo alle nostre spalle l’estremo sud per raggiungere Órzola, il punto più settentrionale di Lanzarote.

La natura da queste parti è la padrona indiscussa e non perde occasione per ricordarlo ai visitatori, con rapidi e drastici cambiamenti d’abito.

Ma anche in questo continuo divenire c’è una costante: i cactus.
Che spuntano in ogni dove. Alti e slanciati verso il cielo, rotondi e ben piantati a terra, ricchi di spine o di fiori, verdi, bianchi… Insomma, ce ne sono per tutti i gusti.

Oltre allo stupore, il loro effetto su di me è quello di spingermi a continue deviazioni, che oltre ad allungare il percorso talvolta fanno perdere di vista la meta. È un po’ la storia della mia vita, sarà per questo che mi viene così bene.

Francesco, al solito, mi segue nel mio vagare. Mi chiedo se a prevalere in lui sia più l’entusiasmo o la rassegnazione. Ma smetto di chiedermelo subito, perché dopo anni e anni di pratica una cosa sento di poterla dire: anche le divagazioni fini a se stesse possono avere grandi pregi. Uno tra tutti, quello di riempire gli occhi e il cuore di assoluta bellezza.

Lanzarote _ 00

Mi sembra impossibile che siano passati 3 anni dall’ultima volta che io e Francesco abbiamo preso un aereo insieme. Eppure è così.

Da allora possiamo dire d’aver visto quasi di tutto: una pandemia, l’arresto imprevisto del lavoro, il distanziamento sociale, l’incertezza nel futuro, lo scoppio di una guerra a due passi da casa, qualche scompiglio personale… Insomma, ci manca solo l’invasione aliena e siamo apposto.

Per fortuna in qualche modo ne siamo venuti fuori. Un po’ come abbiamo fatto io e lui questa mattina sull’Appennino, quando sulla via verso l’aeroporto ci siamo imbattuti in una intensa bufera di neve. Sterzo saldo tra le mani e piede ben calibrato sul pedale.

Così, adesso, dagli 0 gradi di Bologna siamo passati a bere cerveza gelata a maniche corte a Lanzarote.

Va detto che tira un po’ di vento e il cielo non è limpido come immaginavo, ma in fondo bene così.

Al momento, poi, nessun alieno è stato avvistato. Ma visti i precedenti… direi che potrebbero esserci delle possibilità.

il Venerdì _ 01/2023

Tra i buoni propositi per questo nuovo anno ho messo anche quello di riprendere a scrivere con più assiduità. Riprendere ad esempio l’abitudine a raccontare i miei abissi dentistici – e cioè le mie giornate di lavoro, gli incontri, gli episodi più bizzarri… – come mi sono divertita a fare anni fa pubblicando ogni settimana per diversi mesi il Venerdì. Solo che è da tanto tempo che non lo faccio e ripartire è sempre complicato. Ma che dico complicato, complicatissimo.

Ci vogliono argomenti, ci vuole motivazione. Ci vuole un ooooissa di quelli potenti, in grado di rimettermi in piedi. Anzi, alla scrivania. O forse, mi son detta, potrebbe bastarmi un segnale. Qualcosa che arrivi all’improvviso ad attirare la mia attenzione e chiarisca una volta per tutte che tornare a scrivere il Venerdì è la cosa giusta da fare.

Nei primi giorni di questo 2023 mi sono molto interrogata. Mi sono chiesta cioè se ne valesse la pena, perché va bene che la varietà umana con cui ho a che fare ogni giorno al poliambulatorio in cui lavoro è per me una continua fonte d’ispirazione. Ma da lì a metterla nero su bianco, da lì a riuscire a restituirla come vorrei… E poi, visti i precedenti, sarò in grado di mantenere fede a questo impegno?

Accidenti quante volte mi sono posta questa domanda!
Poi, mercoledì, mentre mi dimenavo tra telefoni squillanti, preventivi da spiegare e una sala d’attesa gremita di pazienti, una signora ha suonato il campanello dello studio. Una volta entrata, mi ha sorriso e ha chiesto: “È qui il museo?”.
Io ho sgranato gli occhi, cercando di capire cosa poter rispondere a quella domanda; leggermente bizzarra, se la poni all’interno di un edificio che ospita uffici, qualche azienda e un poliambulatorio. Mentre la mia collega Elsa non ha avuto alcuna esitazione e all’istante s’è lasciata sfuggire un: “Si… il museo dei casi umani”.

La sua voce l’ho sentita solo io. Una manciata di parole perfette. Non avrei saputo fare di meglio. E forse è bene così, che stavolta io sia riuscita a rimanere in silenzio, aspettando che la signora uscisse – non poco delusa per non aver trovato il famigerato museo – per poi scoppiare a ridere.

Quando ho ripreso fiato, ripensando con Elsa a quel brevissimo scambio di battute, ho sgranato di nuovo gli occhi. Stavolta però mi son sentita come davanti a una rivelazione.
E se questo fosse il segnale che stavo aspettando?

Avrei potuto rispondermi in molti modi, ma tra i tanti a mia disposizione ho deciso di scegliere un SI.

Allora tenetevi pronti perché torna il Venerdì.
Ogni mese, una volta al mese.

E ora che il museo ha aperto i battenti, be’, non posso che augurarmene delle belle!

Clicca qui se vuoi scoprire com’è iniziato il Venerdì.

Prossimo appuntamento con “La macchia mediterranea e altri guai”

Quando pochi giorni fa mi hanno chiesto di girare un breve video per presentarmi e annunciare la prossima occasione in cui parleremo de “La macchia mediterranea e altri guai” ho subito pensato, eccoci all’acqua. Poi però, più per gratitudine che per altro, ho accatastato un po’ di libri sulla scrivania in salotto e mi sono improvvisata videomaker. Io, che da sempre malsopporto persino le foto.

Insomma, tutto questo per dirvi che io il video l’ho fatto, l’appuntamento è fissato e gli argomenti certo non mancheranno.
A voi, non resta altro che venire!

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Scrittura e viaggio: è nato dall’unione di queste due passioni il libro di Irene Romano “La macchia mediterranea e altri guai”, in cui si racconta l’avventura di due amiche che intraprendono un viaggio a piedi in Liguria, tra incontri, disavventure e tante scoperte.

Il libro sarà presentato sabato 26 marzo alle 17 alla biblioteca Ficino di Figline a Figline e Incisa ValdarnoValdarno.

📌Info e prenotazioni.

Lisbona

Da un paio di anni a questa parte gennaio è diventato il mese di Lisbona. Una città stretta in un abbraccio di luce, dove tra i vicoli risuona nostalgico il fado e le pasteis de nata ti si sciolgono in bocca.
Lisbona è questo e molto altro. E tra le tante, per me, sarà sempre anche il punto di partenza di un’avventura zaino in spalla che mi ha condotta alla scoperta del mondo e di me stessa.

Se siete curiosi di saperne di più non perdetevi In fuga con me stessa, un libro che raccoglie ‘le gioie e i dolori’ dei miei giorni portoghesi… e non solo. E se per caso l’avete già letto, perché non suggerirlo o regalarlo a una persona speciale?
Lo trovate in LIBRERIA, nei principali store online (Amazon, IBS, laFeltrinelli…) Anche in formato ebook!!
Insomma, i modi per procurarselo tendono all’infinito. Fate voi…


NB: per gli indecisi, ecco qua la recensione di Mappalibro.it

Amicizia

Questi giorni così strani mi hanno dato prova di quanto importante sia la vera amicizia. Quella fatta di empatia e rispetto, certo. Capace però, anche, di riconoscere quando è il momento di buttarsi alle spalle i timori ed entrare a gamba tesa nella vita altrui, per mettere finalmente a tacere i silenzi che stordiscono la mente.

Il valore dell’amicizia lo conoscevo anche prima, quando mi divertivo a scrivere storie di donne in cammino e l’amica di cui avevo bisogno era quella che mi dava la mano mentre io, da gran fifona, sentivo venir meno le mie gambe su di una scogliera a strapiombo sul mare della Liguria.

Ma adesso, dopo questa piccola tempesta, conosco il suo valore ancora di più.

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#lamacchiamediterraneaealtriguai #lerudita #inlibreria #amicizia

Nuovi inizi

L’altro giorno ho iniziato a scrivere una nuova storia. Non so se questa diventerà mai un libro, ma so per certo che dopo aver concluso la prima pagina mi sono ritrovata in cucina a ballare felice come una bambina sulle note di Rock the Casbah dei Clash mentre cucinavo pollo al curry.

Lo so, esistono immagini più edificanti per descrivere una trentacinquenne in estasi, ma non riesco a trovarne una migliore per rendere l’idea di quanto profondamente riesca ad elettrizzarmi ogni nuovo inizio.

Ecco, se proprio mi devo sbilanciare in un augurio, per me vorrei un 2022 così: pieno di nuovi inizi e puro entusiasmo. Lo stesso che auguro anche alle poche ma preziosissime persone che amo con tutta me stessa.

E allora avanti tutta, sempre!!