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Dopo aria, acqua e terra, oggi è stato il turno del fuoco.

In un’isola come questa, dove la natura da sfoggio di sé nei modi più disparati, mi pare giusto dare spazio un po’ a tutti. Allora, invece di spingerci a nord come gli altri giorni, una volta giunti a Yaiza abbiamo svoltato a sinistra per attraversare il Parque Nacional de Timanfaya: una sconfinata distesa di colata lavica sulla quale svettano le Montanas del Fuego, originate da uno dei più grandi cataclismi vulcanici della storia.

Un luogo affascinante e magico, che la magia stamani l’ha fatta sul serio, facendomi tornare bambina in un baleno. È successo nel momento in cui sono scesa dall’auto e mi son trovata davanti a degli enormi ammassi di lava solidificata, tra i quali, incapaci di resistere, io e Francesco ci siamo incamminati per raggiungere poi la Caldera Blanca.

Piccola lo sono stata per un bel po’, anche quando sotto ai piedi avevo la sabbia nerissima di Playa del Janubio e negli occhi il riflesso accecante delle saline.

Perché tornassi grande c’è voluta una cerveza ghiacciata. Ne abbiamo bevuta una a El Golfo, mentre le onde dell’oceano si schiantavano violente sulla scogliera e noi, senza alcun pudore, ripulivamo l’ennesima deliziosa cazuela di pulpo, gamba y champinones a suon di scarpetta.

Forse avremmo potuto trovare un altro modo per salutare Lanzarote, ma a noi è sembrato decisamente il migliore; per dirle ciao e ringraziarla per essere riuscita in così poco tempo a regalarci tutta la sua meraviglia.

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Che il vento a Lanzarote fosse una costante l’avevamo capito.
A quanto pare, però, lo scompiglio che regna tra i nostri capelli da quando siamo arrivati sull’isola non è abbastanza e infatti oggi abbiamo deciso di oltrepassare El Rio e raggiungere La Graciosa.

Una traversata che ha coinciso con la mezz’ora più lunga della mia esistenza. Trascorsa in balia della furia dell’Atlantico, a bordo di un traghetto che s’impennava manco fosse un cinquantino, inclinandosi prima a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra…

Insomma, in quella mezz’ora io e Francesco abbiam fatto una tale scorpacciata di mare che, una volta arrivati nel piccolo isolotto, abbiam pensato bene di buttarci nell’entroterra senza passare dal via e darci in pasto alle sue dune sabbiose, interrotte qua e là da alti rilievi striati di rame.

Là, tra quelle dune, ricoperte di cespugli e chiocciole bianche, abbiamo scoperto che La Graciosa è graziosa sul serio, soprattutto quando dopo una buona ora di cammino il mare torna a farsi vivo, ma stavolta è calmo e pronto a deliziarti con le sue infinite tonalità d’azzurro.

Dirgli ciao è stato molto difficile. Ma del resto, altrove, c’erano altri colori ad aspettarci: il bianco degli edifici di Tengue, ad esempio, o il nero, intenso e perfetto, dei vigneti che si spingono verso sud.

E poi, udite udite, da stasera ce n’è uno nuovo: il rosso dei nostri nasi. Un regalo – l’ennesimo – che dobbiamo a quel burlone che si aggira da sempre sull’isola, indisturbato e impunito, e che la gente da queste parti chiama amichevolmente ‘viento canario’.

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La terra di quest’isola ha il colore della ruggine. Ma non solo.
A nord, ad esempio, la natura regala distese di lava scura e verdi licheni. È un contrasto meraviglioso, che ci ha sorpresi mentre lasciavamo alle nostre spalle l’estremo sud per raggiungere Órzola, il punto più settentrionale di Lanzarote.

La natura da queste parti è la padrona indiscussa e non perde occasione per ricordarlo ai visitatori, con rapidi e drastici cambiamenti d’abito.

Ma anche in questo continuo divenire c’è una costante: i cactus.
Che spuntano in ogni dove. Alti e slanciati verso il cielo, rotondi e ben piantati a terra, ricchi di spine o di fiori, verdi, bianchi… Insomma, ce ne sono per tutti i gusti.

Oltre allo stupore, il loro effetto su di me è quello di spingermi a continue deviazioni, che oltre ad allungare il percorso talvolta fanno perdere di vista la meta. È un po’ la storia della mia vita, sarà per questo che mi viene così bene.

Francesco, al solito, mi segue nel mio vagare. Mi chiedo se a prevalere in lui sia più l’entusiasmo o la rassegnazione. Ma smetto di chiedermelo subito, perché dopo anni e anni di pratica una cosa sento di poterla dire: anche le divagazioni fini a se stesse possono avere grandi pregi. Uno tra tutti, quello di riempire gli occhi e il cuore di assoluta bellezza.

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Mi sembra impossibile che siano passati 3 anni dall’ultima volta che io e Francesco abbiamo preso un aereo insieme. Eppure è così.

Da allora possiamo dire d’aver visto quasi di tutto: una pandemia, l’arresto imprevisto del lavoro, il distanziamento sociale, l’incertezza nel futuro, lo scoppio di una guerra a due passi da casa, qualche scompiglio personale… Insomma, ci manca solo l’invasione aliena e siamo apposto.

Per fortuna in qualche modo ne siamo venuti fuori. Un po’ come abbiamo fatto io e lui questa mattina sull’Appennino, quando sulla via verso l’aeroporto ci siamo imbattuti in una intensa bufera di neve. Sterzo saldo tra le mani e piede ben calibrato sul pedale.

Così, adesso, dagli 0 gradi di Bologna siamo passati a bere cerveza gelata a maniche corte a Lanzarote.

Va detto che tira un po’ di vento e il cielo non è limpido come immaginavo, ma in fondo bene così.

Al momento, poi, nessun alieno è stato avvistato. Ma visti i precedenti… direi che potrebbero esserci delle possibilità.