Lanzarote _ 03

Dopo aria, acqua e terra, oggi è stato il turno del fuoco.

In un’isola come questa, dove la natura da sfoggio di sé nei modi più disparati, mi pare giusto dare spazio un po’ a tutti. Allora, invece di spingerci a nord come gli altri giorni, una volta giunti a Yaiza abbiamo svoltato a sinistra per attraversare il Parque Nacional de Timanfaya: una sconfinata distesa di colata lavica sulla quale svettano le Montanas del Fuego, originate da uno dei più grandi cataclismi vulcanici della storia.

Un luogo affascinante e magico, che la magia stamani l’ha fatta sul serio, facendomi tornare bambina in un baleno. È successo nel momento in cui sono scesa dall’auto e mi son trovata davanti a degli enormi ammassi di lava solidificata, tra i quali, incapaci di resistere, io e Francesco ci siamo incamminati per raggiungere poi la Caldera Blanca.

Piccola lo sono stata per un bel po’, anche quando sotto ai piedi avevo la sabbia nerissima di Playa del Janubio e negli occhi il riflesso accecante delle saline.

Perché tornassi grande c’è voluta una cerveza ghiacciata. Ne abbiamo bevuta una a El Golfo, mentre le onde dell’oceano si schiantavano violente sulla scogliera e noi, senza alcun pudore, ripulivamo l’ennesima deliziosa cazuela di pulpo, gamba y champinones a suon di scarpetta.

Forse avremmo potuto trovare un altro modo per salutare Lanzarote, ma a noi è sembrato decisamente il migliore; per dirle ciao e ringraziarla per essere riuscita in così poco tempo a regalarci tutta la sua meraviglia.

Lanzarote _ 02

Che il vento a Lanzarote fosse una costante l’avevamo capito.
A quanto pare, però, lo scompiglio che regna tra i nostri capelli da quando siamo arrivati sull’isola non è abbastanza e infatti oggi abbiamo deciso di oltrepassare El Rio e raggiungere La Graciosa.

Una traversata che ha coinciso con la mezz’ora più lunga della mia esistenza. Trascorsa in balia della furia dell’Atlantico, a bordo di un traghetto che s’impennava manco fosse un cinquantino, inclinandosi prima a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra…

Insomma, in quella mezz’ora io e Francesco abbiam fatto una tale scorpacciata di mare che, una volta arrivati nel piccolo isolotto, abbiam pensato bene di buttarci nell’entroterra senza passare dal via e darci in pasto alle sue dune sabbiose, interrotte qua e là da alti rilievi striati di rame.

Là, tra quelle dune, ricoperte di cespugli e chiocciole bianche, abbiamo scoperto che La Graciosa è graziosa sul serio, soprattutto quando dopo una buona ora di cammino il mare torna a farsi vivo, ma stavolta è calmo e pronto a deliziarti con le sue infinite tonalità d’azzurro.

Dirgli ciao è stato molto difficile. Ma del resto, altrove, c’erano altri colori ad aspettarci: il bianco degli edifici di Tengue, ad esempio, o il nero, intenso e perfetto, dei vigneti che si spingono verso sud.

E poi, udite udite, da stasera ce n’è uno nuovo: il rosso dei nostri nasi. Un regalo – l’ennesimo – che dobbiamo a quel burlone che si aggira da sempre sull’isola, indisturbato e impunito, e che la gente da queste parti chiama amichevolmente ‘viento canario’.

Lanzarote _ 00

Mi sembra impossibile che siano passati 3 anni dall’ultima volta che io e Francesco abbiamo preso un aereo insieme. Eppure è così.

Da allora possiamo dire d’aver visto quasi di tutto: una pandemia, l’arresto imprevisto del lavoro, il distanziamento sociale, l’incertezza nel futuro, lo scoppio di una guerra a due passi da casa, qualche scompiglio personale… Insomma, ci manca solo l’invasione aliena e siamo apposto.

Per fortuna in qualche modo ne siamo venuti fuori. Un po’ come abbiamo fatto io e lui questa mattina sull’Appennino, quando sulla via verso l’aeroporto ci siamo imbattuti in una intensa bufera di neve. Sterzo saldo tra le mani e piede ben calibrato sul pedale.

Così, adesso, dagli 0 gradi di Bologna siamo passati a bere cerveza gelata a maniche corte a Lanzarote.

Va detto che tira un po’ di vento e il cielo non è limpido come immaginavo, ma in fondo bene così.

Al momento, poi, nessun alieno è stato avvistato. Ma visti i precedenti… direi che potrebbero esserci delle possibilità.

il Venerdì _ 50

Nella vita non si sa mai quel che ci tocca. Ci son settimane che filano via con una facilità da non credere e poi, be’, ce ne sono altre, tipo questa, che è iniziata con una sonora pedata nel culo, SBAM, giunta improvvisa a scuotermi dal torpore della quarantena. E in un attimo, ben tornata alla realtà.

Be’, ben tornata si fa per dire. Se c’era una cosa, infatti, che temevo sin dall’inizio era proprio questa: il tornare alla realtà scoprendo che da tutto ‘sto casino non abbiamo imparato un bel niente, ritrovando ahimè ognuno solo più uguale al se stesso di prima.

Niente occhi nuovi o nuovi cuori… Per quel che ho visto in questi giorni, infatti, i buoni son solo diventati più buoni, così come gli altruisti, gli ottimisti e i gentili. Il che non sarebbe poi male, se non fosse che lo stesso vale anche per i furbi, gli arroganti, per quelli che avrebbero di sicuro saputo far meglio ma al solito, oh, han fatto fare tutto a te per poi puntare il dito. Già… vale anche per loro, per quei tipi polemici, che polemici erano e polemici rimangono, solo che adesso – dopo esser stati repressi per giorni e giorni – han raggiunto un livello superiore, diventando così dei veri Super Saiyan della polemica.

Io non so come, ma ogni volta che ho a che fare con persone così il mio cervello se ne esce con un Bona, ci sì! e da forfait.
Il che, detto tra noi, non è proprio il massimo visto che mi occupo di pagamenti. Per fortuna, però, in studio l’hanno capito che questo rischio, noi della segreteria, non lo possiamo proprio correre, allora, per proteggerci – non solo da simili minacce, visti i tempi che corrono – da qualche giorno ci han messe tutte sotto vetro. O meglio… sotto plexiglass, e adesso passiamo le giornate in una dimensione altra, che per quanto sia diversa dall’isolamento della quarantena, ci permette comunque di osservare ed ascoltare il mondo a debita distanza.

A dire il vero, là dentro, qualcosa dall’esterno arriva eccome. Il telefono, ad esempio, ma fino ad ora ha portato solo cose buone.

Mi viene in mente la signora Anna, che l’altro giorno ha chiamato per spostare il suo appuntamento.
“Icchė le dico, signorina? – ha esordito – e c’ho 83 anni, son du’mesi so’ chiusa in casa. Per fortuna che ‘i pizzicagnolo l’ho proprio davanti… figurassi, l’è lui a chiamammi la mattina per chiedere d’icché ho bisogno”.

E senza darmi modo di poter intervenire, ha preso a raccontarmi le sue giornate, passate un po’ come tutti tra cucina e salotto, solo che lei di anni ne ha 83, ha ribadito, per poi sorridere imbarazzata: “Du’mesi sola in casa, mammini… e’mi so’ ritrovata anche a parlare con la televisione, guardi!”.

Così ho sorriso anch’io, ché di questi tempi i motivi per sorridere non son mai abbastanza. “E che sarà mai!”, le ho detto.
“Mah… – ha ripreso – se lo dice lei che l’è giovane, la mi tira su. Eppure oh, finché Dio mi tiene su questa Terra, che le devo dire? Io ci sto, e se questo vol dire ritrovammi a parlare con la televisione, vorrà dire che parlerò con la televisione”.

Non fa una piega, mi son detta mentre l’ascoltavo tirare in ballo Dio ed i piani che aveva in serbo per lei. Giorni di solitudine, magari qualche attimo di tristezza o smarrimento, ma anche gratitudine, si, verso il pizzicagnolo che l’aiuta ogni giorno e anche verso di me, che son stata ad ascoltarla parlare e ridere di gusto. Che spasso di donna!

E così, mentre ridevo insieme a lei, d’un tratto mi son sentita felice e al sicuro, tanto da spazzar via i malumori di poco prima e rendermi conto che non per tutti l’esser rimasti uguale a se stessi è un male. Prendiamo la vita, ad esempio, capace ancora di regalare dopo ogni pedata nel culo un buon motivo per risollevarsi.

Per questo, alla faccia di chi vorrebbe spegnere cervelli ed entusiasmo, le ringrazio entrambe, la vita e la signora Anna, per esser venute in mio soccorso a ricordarmi che là fuori – al di là delle nostre case o di questo strano acquario nel quale mi trovo adesso – ci sono ancora un sacco di cose belle. Cose capaci di far sorridere, sognare, di darci ossigeno quando ne abbiam più bisogno e per le quali vale senz’altro la pena di resistere. Sempre.

Lisandro Rota

Copenaghen, 12 marzo

A tratti ho come l’impressione che in questa città ci siano più bici che esseri umani, ché in giro, oh, mi par di non vedere altro. Sono ovunque: buttate a terra dal vento, legate a qualche palo o in strada, dove sin dalle prime ore del mattino, van qua e là come uno sciame d’api.

Più li guardo pedalare, più penso che ‘sti danesi, oh, devono avere due gambe così ed io, lo ammetto, un po’ li invidio. Anche se in questi giorni, be’, le gambe l’ho messe in moto anch’io, macinando passi per le strade di questa città, che sebbene si mostri sempre piuttosto distesa non dorme mica mai.

Da fuori, i locali e i negozi sembrano chiusi, ma affacciandosi si scoprono donne e uomini all’opera: impiegati, artigiani, professionisti, commessi. Lo stesso accade nei caffè, dove c’è chi parla, certo, ma anche chi se ne sta in silenzio al pc o al tablet, mentre intanto butta giù caffe, tè e brioches piene di burro che vanno in frantumi al primo morso. Crash!

Stamani, tra briciole e tazzine, mi ci son buttata anch’io, ché il cielo, fuori, non prometteva niente di buono. E così, libro alla mano e via, anch’io una di loro.

Ammetto che farlo è stato un piacere, ché quassù, oh, la gente si rivolge a me in danese. Il che, ovviamente, equivale a non capirsi, ma per lo meno ho trovato un posto dove non mi scambiano più per una francese.

È che qui la gente è avanti, c’è poco da fare. Lo si vede dalle piccole cose, tipo che nessuno alza mai la voce o che l’acqua, nei caffè, è a disposizione di tutti gratuitamente; ognuno può prendere un bicchiere e servirsi. E se poi ti scappa la pipì quando sei già in giro, be’, non c’è da preoccuparsi, ché i bagni pubblici, qua, sono un po’ ovunque e udite udite, la gente li lascia puliti senza bisogno che qualche cartello ricordi loro che quello che hanno in mano non è un idrante, ad esempio, o che nel wc va gettata solo la carta igienica. Roba che a pensarci, oh, in Italia sembra fantascienza, mentre qui è semplicemente come vanno le cose tutti i giorni.

In effetti, a me, questi non sembrano affatto alieni. Li trovo anzi piuttosto umani: gentili, sorridono. Sarà questione di fiducia. Ché se c’è una cosa che ho notato è che quassù, di fiducia, ne hanno da vendere, soprattutto nel futuro, con tutte le carrozzine e i passeggini, che si vedono in giro. Son così tanti, che tra quelli e le bici potrei davvero passare la giornata a contare ruote.

Ma ahimè, temo che il tempo a mia disposizione non sia abbastanza. Quel poco che mi resta lo butto in una bella fetta di torta, che anche se non sarà in grado di far leva sulla mia fiducia, son certa accrescerà il buonumore, assieme alle cosce. E allora, be’, mi vien da pensare che sebbene di passi da compiere ne abbia ancora tanti, tutto sommato son sulla buona strada, ché per andare in bici servono anche quelle. No?

Copenaghen, 11 marzo

Tenere gli occhi aperti, stamani, è stata una vera impresa, ché in cielo splendeva un sole bellissimo.

La città s’è svegliata di buonumore ed io, be’, non ho potuto che fare lo stesso. Così, un po’ alla cieca, mi son data in pasto alle sue vie, che saranno anche silenziose, ma sanno il fatto loro e a tirarti a sé, oh, ci mettono un attimo. Per lo meno con me, che senza accorgermene, in un baleno mi son ritrovata a Christianshavn, dove isole verdi spuntano fuori dalle fredde acque del Baltico.

Le facciate delle case, là, son ricoperte di mattoni, altre di legno, ed hanno grandi vetrate attraverso cui chiunque può entrar dentro. Persino io, che son l’ultima arrivata, mi ritrovo ad osservare una ragazza che lava i piatti. Vedo i suoi quadri, il suo divano. Vedo anche la signora al piano di sopra che annaffia le piante. Ma a loro, la cosa, non sembra dar fastidio. Anzi, sorridono, per poi tornare a darsi da fare.

Sarà che oggi c’è il sole, ma da queste parti mi sembran tutti così sereni, rilassati. Lo son soprattutto a Christiania, la cosiddetta Città Libera, dove dagli anni settanta a farla da padrona son la condivisione e la creatività. Be’, assieme all’erba, il cui odore si diffonde, intenso, sin dalle prime ore del mattino.

Del resto, a Copenaghen, la natura si trova un po’ da per tutto. Per le vie tortuose di Christiania, così come nel cielo ampio che si fonde col mare o tra gli alberi, i cui rami si allungano fino a bussare alle porte delle case.

È un legame strettissimo, quello con la natura, che finisce persino nel piatto, dove i prodotti son quelli del territorio, saporiti e colorati, ed è un tripudio di erbe spontanee. Oh, i danesi riescono davvero a metterle ovunque, tanto che da ieri non faccio altro che chiedermi, non è che a forza di buttarle giù, va a finire che divento un po’ un’erba spontanea anch’io?

Copenaghen, 10 marzo

Vorrei sapere cos’è che mi ha fatto alzare alle tre, stanotte, per mettermi in auto e raggiungere Bologna.

C’era un tale buio, un tale silenzio, ché a quell’ora della notte, si sa, la gente se ne sta a letto, mica alla guida come me. Che poi, dico io, fosse finita lì. Invece no, ché a quanto pare il rosso di Bologna non mi bastava e così mi son spinta fin quassù, dove il cielo è tinto di bianco ma di colori, intorno, se ne vedono a perdita d’occhio. Blu, rosso, verde… finirci dentro è un attimo, ché oggi, oh, il vento non si da tregua e ti sbatte da una parte all’altra, da un colore all’altro. E così, anche senza volere, un istante sei blu, quello dopo rosso, poi d’improvviso verde.

L’acqua invece è uno specchio quieto, ma anche lei, zitta zitta, non smette mai di muoversi. È così tanta, che ovunque vada me la ritrovo tra i piedi. E come se quella non bastasse, a un tratto ne vien giù un po’ anche dal cielo. Ma qualche minuto più tardi ha già smesso, ché c’è da far spazio al sole.

Allora, sai cosa, io mi tolgo il cappello, mentre intanto penso che son qui solo da poche ore ma una cosa l’ho già capita ed è che questa città è decisamente donna: golosa di dolci, vibrante di colori e dall’umore ballerino.

Ora si che capisco cos’è che m’ha buttato giù dal letto stanotte.

Cabo Verde, 11 febbraio

A volte mi chiedo da quanto tempo è che siamo in viaggio, io e lui, ché da quando abbiam messo gli zaini in spalla son passati appena dieci giorni, ma a me, oh, pare un’eternità.

In effetti, insieme abbiam visto e assaporato così tanti luoghi; incrociato così tanti sguardi, che questi dieci giorni si son dilatati, diventando molti di più.

Ma la fine, ahimè, è arrivata anche a questo giro e così, oggi abbiamo detto ciao a Capo Verde, con un ultimo bagno in questo mare stupendo, tinto di un azzurro talmente azzurro, che finché non ci sei dentro, oh, non ci puoi mica credere che al mondo esiste un mare così. Un po’ come il sole, che da queste parti è una grande palla che dispensa baci in ogni dove. Stamani ci ha stretto a sé e ne ha dato qualcuno anche a noi, ché mica poteva davvero farci tornare a casa più bianchi di prima.

Di colori, comunque, queste isole ci han riempito non solo il corpo, ma anche l’anima. Ovunque, infatti, ne abbiam visti di così brillanti e diversi, da perderne davvero il conto, mentre intanto nell’aria soffiavano vento e musica.
Una musica che sa di saudade e allegria, di donne fiere e uomini operosi. Ma soprattutto di bambini, ché corrono liberi, per le strade o in riva al mare, diffondendo qua e là risate di cuore, a perdifiato, su cui vorrei che il sole non scendesse mai.

Per noi due, be’, desidero un po’ la stessa cosa, che i nostri sguardi possano continuare a perdersi insieme chissà dove, in silenzio o immersi nel caos, ché se una cosa della vita l’ho capita, è che niente è più prezioso di un buon compagno di viaggio.

Santa Maria _ Ilha de Sal, 10 febbraio

La domenica, a Santa Maria, a far da sveglia ci sono tamburi e djambe. Sarà che si avvicina il carnevale, che da queste parti sembra coinvolgere davvero tutti e allora, be’, mi par giusto iniziare a suonare sin da oggi, ché davanti a una festa simile, non ci si può mica far trovare impreparati.

Così, mentre la musica avvolge il centro di questa piccola cittadina sul mare, la gente cammina lungo Rua 1 de Junho, sotto un sole che oggi sembra incerto sul da farsi. Se uscir fuori o starsene ancora un po’ dietro alle nuvole, proprio come i ragazzi che ieri han fatto le ore piccole e di cui ancora, in giro, non vi è alcuna traccia.

I bambini, invece, son già per strada. Alcuni si trovano davanti alla Chiesa, che giocano e parlano ad alta voce, insieme a distinte signore in là con l’età. Mentre i caffè son pieni di gente che è pronta ad iniziare una nuova giornata. Ma con calma, eh, ché da queste parti non si corre mai. Non vedo perché lo si dovrebbe far proprio di domenica.

A rallentare, però, non son proprio tutti. Sul porticciolo, infatti, le barche continuano a scaricare pesce, mentre uomini e donne si danno da fare per pulirlo, stiparlo in grandi ceste e poi via, in testa, ché le persone tra poco si metteranno a tavola e a guardarmi introno, oh, di persone ne vedo un bel po’. Tante che mi chiedo, chissà quanto dovranno ancora lavorare per sfamarci tutti?

Già, perché tra quei tutti, oggi, ci siamo anche noi e dato che il tempo a nostra disposizione è ormai agli sgoccioli, ci buttiamo alla cieca su qualcosa di nuovo e ordiniamo cracas e percebes.
Che appena le vedo arrivare, penso, come diavolo farò a mangiare ‘sta riba? Che a vederla, oh, non ti vien mica subito in mente che si possa mangiare. Invece, con qualche istruzione e pinze alla mano, nonostante i pezzi sparati qua e là, siam capaci di ripulire il piatto anche ‘sta volta. Ché anche se è da un po’ che siam lontani da casa, mi sa che siam rimasti gli stessi di sempre.

Da lì a buttare all’aria i nostri piani è un attimo, ché dopo un pranzo così, chi ha voglia di mettersi in macchina? Così ci lanciamo verso Ponta de Sinò, alla ricerca del faro. Non sarà come fare il giro dell’isola, certo, ma del resto è domenica anche per noi. No?

Man mano che ci spingiamo ad Ovest, la spiaggia si fa sempre più deserta. Così vasta che potremmo tirar dritto all’infinito. Intorno, di persone non ce ne sono quasi più e l’unico rumore che si sente è quello delle onde che s’infrangono a riva, assieme a quello immancabile del vento. E mentre il sole inizia la sua discesa, noi siam due puntini insignificanti sulla sabbia. Stesi l’uno accanto all’altro, in silenzio, a guardare chissà dove e a pensare, ma quanto sarà bella la domenica?

Ponta de Leme Velho _ Ilha de Sal, 9 febbraio

Ieri sera, in giro, ho visto dei volti di donna bellissimi, sorridere a chi passava e anche alla vita, ché nell’aria c’era un sacco di bella musica e allegria. E loro a ballare, con in testa treccine ben tirate o foulard colorati.

Le donne su quest’isola sono affascinanti. Le guardi e ti chiedi, chissà quali pensieri ci saranno dietro a quegl’occhi scuri, mentre i bambini giocano col mare, si rotolano nella sabbia e gli uomini rientrano dalla pesca.

Più li osservo, più mi arriva forte il loro senso di comunità. Non li vedi mai da soli, anzi, son lì che parlano, si aiutano. I bambini, poi, sembrano essere tutti di tutti. Ed è una cosa davvero bella, che noi, ahimè, abbiamo quasi del tutto perso. Mentre invece, be’, non ci farebbe affatto male fare un passo indietro. Magari riusciremmo di nuovo a fidarci l’uno dell’altro e chi lo sa, forse anche a sorridere come loro, bocca spalancata e cuor leggero.

In fondo, se ci penso, con questo sole e un mare così, come si fa a non sorridere? L’acqua è talmente chiara che potresti star tutto il giorno a mollo. A goderti il fresco dell’Oceano e quei colori, che a casa, oh, non te li ritrovi mica quei colori lì. E allora pensi, che relax, che pace.

Già, solo che noi non siamo mica venuti fin qua solo per questo. Ché ok il relax e la pace, ma se questa la chiamano l’isola di sale, be’, vorremmo anche capire il perché. Così ci buttiamo ad est, verso Ponta do Leme Velho e poi a nord, per raggiungere le saline di Santa Maria.

Camminiamo tra ciottoli neri su cui s’infrangono le onde del mare, terra rossa e morbide dune di sabbia bianca. E più andiamo avanti più mi meraviglio, ché il paesaggio, da queste parti, cambia di continuo. E lo fa così rapidamente che non riusciamo a stargli dietro. Un po’ come alle indicazioni: ciottoli, paletti, lamiere. Dovrebbero star lì, a guidarci, ma noi, oh, non ne vediamo nemmeno l’ombra.

Dopo un’ora buona, però, riusciamo comunque ad arrivare. Così, finalmente, maciniamo passi anche sulla crosta di sale, che scricchiola arida sotto i nostri piedi. E poco importa se per farlo abbiam dovuto tagliare tra le dune, seguendo quad e gruppi a cavallo. La nostra, non sarà stata la strada più corta, certo, ma alla fine, be’, è comunque riuscita a portarci dove volevamo.