Con un po’ di nostalgia, oggi abbiam salutato l’isola di Santiago, la più africana di Capo Verde, che a quanto ci riguarda può tranquillamente giocarsi anche il primato per la più dinamica, dato che alle sei e mezza di stamani erano già tutti in strada a camminare, ad allenarsi. E noi lì, a chiederci, ma la gente, qui, non si ferma mai?
A modo nostro, comunque, non ci fermiamo neanche noi e infatti oggi raggiungiamo Boa Vista, l’isola di sabbia. Se la chiamano così, dev’esserci per forza un perché e in effetti non è difficile capire quale sia, dato che in neanche mezz’ora di volo veniamo catapultati in un’altra dimensione, fatta di dune bianche e sconfinate distese di sabbia.
All’aeroporto incontriamo Klaim. Be’, a dirla tutta, il nostro, più che un incontro, all’inizio, è un vero e proprio scontro. Non facciamo in tempo a metter piede sull’isola, infatti, che siam subito oggetto di una contesa tra autisti, che si gridano contro e strattonano zaini. E noi lì, zitti, a guardare, ché lo capisco, due tipi così non vi capitano certo tutti i giorni, ma anche meno va bene lo stesso, eh.
Alla fine, comunque, ad avere la meglio è Klaim, e per fortuna, dico io, ché dopo un po’ che se ne sta serio alla guida del suo aluguer, apre bocca e lì capiamo d’aver a che fare con un tipo davvero in gamba. Disponibile, alla mano e con un buon sorriso stampato sul viso. Non gli manca proprio niente, parla persino italiano. Così, ne approfittiamo per toglierci delle curiosità. Il significato della parola Baixa, ad esempio, che qua la trovi un po’ da per tutto. O l’estensione di questa isola, che ci dice essere la terza dell’arcipelago per dimensioni, ma decisamente diversa delle altre. In effetti, be’, ovunque ci si giri non si vede altro che polvere.
Prima di raggiungere Sal Rei, chiediamo a Klaim di fare una piccola deviazione a Rabil, un tempo capitale di Boa Vista. E lui, be’, non si tira certo indietro, è anzi ben contento di portarci nella città in cui vive con sua moglie e cinque figli, che son poi la cosa che più lo rende felice in questa vita. E chissene, se i soldi son pochi e il lavoro, da queste parti, c’è e non c’è. A lui basta tornare a casa la sera, sentirsi chiamare papà ed ecco che passa la paura. Mica come voi, dice, che non fate altro che pensare al lavoro, a fare soldi… Io, voi, proprio non vi capisco. E ride.
Così, tra una chiacchiera e l’altra arriviamo a Rabil, che altro non è che una lunga strada di case che si susseguono una dietro l’altra nel bel mezzo del niente. Le irte montagne di Santiago e i verdi palmeti, ormai, non sono che un ricordo, ché qua il sole picchia forte e a spingersi verso l’alto ci provano solo i pali della luce, quando ci sono.
Camminando, scopriamo però che anche qui ci son tanti colori, che s’impongono sul bianco d’intorno. Spuntano vivaci sulle facciate delle case e sui vestiti che indossano i pochi che si vedono in giro, ché sotto questo sole, oh, fa caldo a tutti, mica solo a noi.
I bambini sono a scuola. Nel silenzio che domina, le loro parole si sentono in ogni dove, un po’ come gli sguardi, che anche se non li vedi, son dietro a porte e finestre che ti osservano. Gli uomini, invece, sono a lavoro. C’è chi tira su case e chi costruisce un tavolo, più in là qualcuno ripara scarpe, altri invece lavorano la ceramica. Insomma, si adoperano un po’ tutti ed è un piacere guardarli, ché qua, per far e cose, si usano ancora le mani. Un modo non da poco per restare autentici, in contatto con le cose e con se stessi, mica come da noi, che senza le macchine, oh, sembra non si riesca più a fare nulla.
E così, le mani oggi le usiamo anche noi, per salutare Klaim e ringraziarlo. Ché un benvenuto così, e chi se l’aspettava!